“Siamo soddisfatti che la nostra battaglia di giustizia possa proseguire”. Così ha commentato l’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, al termine dell’udienza preliminare che si è tenuta lunedì 10 gennaio 2022 presso la sede del tribunale di Roma di piazzale Clodio.
Si apre così un nuovo capitolo – il processo riprenderà l’11 aprile – nel caso del ricercatore italiano Giulio Regeni. Una nuova fase in cui le istituzioni politiche italiane sono chiamate esplicitamente ad assumersi le loro responsabilità e ad agire al fine di ottenere giustizia per l’omicidio del giovane italiano.
Il giudice, Roberto Ranazzi, era stato chiamato a pronunciarsi sulla riapertura del processo per sequestro, tortura e omicidio a carico di quattro agenti dei servizi segreti egiziani. Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Questi i nomi dei possibili esecutori dell’uccisione di Regeni, che la famiglia e l’avvocato hanno chiesto di diffondere.
I quattro erano sfuggiti al processo lo scorso 14 ottobre dopo che la III Corte d’Assise di Roma aveva annullato il rinvio a giudizio, a causa della mancata certezza che gli imputati fossero a conoscenza del processo a loro carico. Il governo egiziano si era rifiutato di fornire gli indirizzi dei quattro, rendendo più difficile allo stato italiano recapitare loro l’avviso della conclusione delle indagini preliminari.
“È evidente che i nomi degli agenti egiziani e i loro dati fossero noti. Pubblicarli sui giornali è importante ma non sufficiente.” Così commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che continua: “Il garantismo rende nobile la procedura italiana, è quindi necessario che queste persone abbiano una notifica attraverso atti giudiziari. Rimane però la domanda fatta anche dai genitori di Giulio: come è possibile che l’Italia non sia stata in grado di rintracciare questi indirizzi?”.
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Sono due i piani che caratterizzano questa storia: uno giudiziario, l’altro politico. Il secondo, come sostenuto da molte voci tra cui quella dell’on. Palazzotto, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni, è stato fino a questo momento inefficace.
Sono passati quasi 6 anni da quel 3 febbraio 2016, quando è stato ritrovato il corpo dello studente di Cambridge, in Egitto per una ricerca di dottorato. Il suo studio riguardava i movimenti di protesta dei gruppi sindacali autonomi egiziani, filo rosso che lega tutti i governi che si sono succeduti. «L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale», questo è uno dei tanti articoli pubblicati da Giulio, sotto pseudonimo, sui giornali italiani. Tramite la scrittura, il ricercatore raccontava il suo lavoro che si è concentrato soprattutto sull’analisi dei movimenti sindacali frammentati e impotenti di fronte ad un governo autoritario come quello di al-Sisi.
Scomparso il 25 gennaio al Cairo, Giulio Regeni è stato ritrovato morto in un fosso lungo una strada nella periferia della capitale. Nonostante il corpo mostrasse evidenti segni di tortura, le autorità egiziane hanno tentato di negare il loro coinvolgimento nell’uccisione del giovane ricercatore. Omicidio per motivi legati alla droga o per questioni personali dovute a una presunta relazione omosessuale, sono solo alcune delle tesi proposte dal goerno di al-Sisi per giustificare il ritrovamento di Regeni sul territorio egiziano.
Con il pronunciamento odierno il giudice, accogliendo buona parte delle indicazioni della procura di Roma, chiede al governo italiano di impegnarsi indagando le possibilità di nuovi canali di cooperazione con le autorità egiziane. Ci si aspetta quindi di vedere se la collaborazione Italia-Egitto, sempre giudicata valida e proficua sul piano economico, riuscirà ad ottenere dei risultati sul piano dei diritti umani.