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Esclusiva

Gennaio 31 2022
Tradire un fumetto, ma farlo in maniera virtuosa

Cosa rimarrà dopo la fine del mondo. La distopia de “La Terra dei figli”, dal disegno di Gipi alla pellicola di Claudio Cupellini.

Un padre, un figlio, e un diario che nessuno sa leggere. Tra il freddo e le acque torbide del delta del Po, ciò che resta dell’umanità sopravvive divisa e immersa nella solitudine e nell’abbrutimento. «Ci siamo chiesti cosa rimarrà trent’anni dopo l’apocalisse. Non la natura, ma la plastica, il metallo. Allora abbiamo costruito dal nulla moltissimi elementi di scenografia che hanno influenzato il mondo visivo di questo racconto».  L’Italia post apocalittica de La Terra dei Figli è un luogo malato, dove si lotta ogni giorno per sopravvivere. «La prima cosa che mi è venuta in mente è stata cercare un mondo che fosse andato a male, che fosse marcio. La rappresentazione visiva avrebbe dovuto tener conto di questo, del tratto secco e sporco del fumetto». Così Claudio Cupellini, regista e sceneggiatore, racconta alla stampa estera del Globo d’Oro come ha lavorato sul mondo distopico immaginato da Gipi, fumettista e autore dell’omonima graphic novel, per farla sua.

«Ho cercato di tradire il fumetto ma di farlo in maniera virtuosa. Non ho preso questo racconto come fosse uno storyboard: ho tentato affrancarmi dai disegni tenendo conto di quello che raccontavano i segni visivi». A colpirlo, dell’opera, le caratteristiche inusuali rispetto alle precedenti storie di Gipi, di cui si dichiara grande appassionato. «Di solito, nei suoi fumetti, il rapporto tra testo e immagine è sempre completo. Ma in questo ho subito notato uno spazio dentro al quale avrei potuto inserirmi e raccontare un mio punto di vista sulla vicenda senza farne una mera copia. E poi vi ho trovato un tema a me caro, che ho già trattato in passato: il rapporto tra padre-figlio».

Tradire un fumetto, ma farlo in maniera virtuosa
Il regista Claudio Cupellini con l’attore protagonista Leon de la Vallée.

In due mesi la sceneggiatura del film era già bella che pronta. A questa si è aggiunto subito un cast di nomi affermati: Valeria Golino, Valerio Mastandrea, Pippo Delbono, Fabrizio Ferracane, Maurizio Donadoni. Ma a reggere il film è un giovane esordiente dai tratti taglienti, Leon de la Vallée, all’epoca del girato appena diciassettenne. «In lui ho trovato nella fisicità il protagonista, ma nel cuore tutti i sentimenti più giusti. Non aveva fatto scuole di recitazione prima, ma ha affrontato sei, sette provini con coraggio. Ma, soprattutto, ha interpretato questo ruolo due settimane dopo aver perso il padre. Ed è venuto sul set a raccontare una storia che parlava di rapporto, anche molto duro, tra genitore e figlio».

Come crudo e ostile è il mondo dove nasce il Figlio, a cui non è stato nemmeno dato un nome. Per questo trovare la giusta ambientazione è stata una delle prime preoccupazioni del regista. «Volevo fare un film europeo, non ricalcare un immaginario da oltreoceano. Mi sono detto che il delta del Po e la laguna attorno a Venezia non potevano che essere i luoghi giusti. Potevo mostrare qualcosa di nuovo, qualcosa che non vediamo troppo spesso nei nostri schermi». Non senza difficoltà, poiché «molte volte la location era allagata e ci volevano due ore per raggiungerla. Faceva molto freddo e spesso le condizioni climatiche erano avverse. Siamo stati abbastanza fortunati, ma ho chiesto agli attori e alla troupe sforzi attoriali importanti ed una performance quasi fisica».

Così la laguna torbida del nord Italia si trasforma, ne La Terra dei figli, in un non luogo metafora di un pianeta arido delle sue risorse. Una terra dove non nascono più figli, e dove i padri negano conoscenza. Un mondo dove ci si muove alla ricerca di aria più respirabile, e dove un diario e delle parole, che nessuno sa più leggere, guidano un giovane alla scoperta del proprio passato.

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