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Esclusiva

Febbraio 3 2022
«O noi o i no-vax», l’ultimatum degli artisti a Spotify

Dopo Neil Young e Joni Mitchell, la protesta contro i podcast di Joe Rogan rischia di mettere in crisi la linea editoriale della piattaforma musicale

«Non ci si aspettava la reazione di un grande come Neil Young, anche se normalmente queste azioni vengono viste come proteste di vecchi fricchettoni che hanno poco impatto. Invece, è interessante il fatto che una cantante come Joni Mitchell abbia seguito il suo esempio: se si cominciano a muovere gli altri, cambia tutto». Così Ernesto Assante, giornalista e critico musicale di Repubblica, commenta la vicenda di mercoledì 26 gennaio, quando il cantautore canadese Neil Young ha fatto rimuovere tutta la sua musica dalla piattaforma musicale svedese Spotify, accusata di fare disinformazione sul Covid con il podcast The Joe Rogan Experience, e ha poi annunciato su Twitter il passaggio ad Amazon Music.

Se all’inizio non ci si aspettava che la protesta di Young potesse avere un seguito, nei giorni successivi altri big del mondo della musica hanno deciso di imitarlo. Dalla cantautrice canadese Joni Mitchell, amica di lunga data di Young, a Nils Lofgren, chitarrista della E-Street Band di Bruce Springsteen, fino al chitarrista del gruppo Crosby, Stills, Nash & Young, Graham Nash. Persino gli ex duchi di Sussex, Harry e Meghan, che con Spotify hanno firmato un contratto da 1,8 milioni di dollari per un podcast su Archewell, fondazione senza scopo di lucro che lotta contro la disinformazione e la misinformazione, hanno minacciato di ritirarsi se il prodotto di Rogan non fosse stato modificato.

Com’è possibile che un colosso della musica come Spotify non abbia valutato le conseguenze di una scelta editoriale così divisiva? «Non ci ha proprio pensato. Tutte le piattaforme digitali come Facebook e Spotify, che consentono agli utenti di pubblicare il loro materiale, partono da un presupposto: ‘io sono internet, qui chiunque ha diritto di parola perché la democrazia è basata su questo.’ Ma nel momento in cui una di queste piattaforme diventa un editore e decide cosa pubblicare, è automaticamente passibile di critica e boicottaggio».

Il conto economico che ha fatto Spotify è frutto della vaghezza in cui questo tipo di piattaforme senza filtri si muove nel web, partendo dal presupposto che tutto sia possibile, ma non ha pensato al fatto che, invece, altri come Facebook e Twitter abbiano già attuato forme di controllo dei contenuti. È vero che da qualche giorno Spotify ha iniziato ad esercitare una forma di controllo sui prodotti che offre, eliminando oltre 20.000 podcast a sfondo No-vax, ma si tratta soltanto di contenuti altrui.

«Il problema in questo caso è la pazienza di Spotify nei confronti di un suo stesso podcast» secondo Luca Piras, autore di Metropolis, video-podcast di Repubblica, e blogger di HuffPost. The Joe Rogan Experience diventa incensurabile perché Spotify lo produce con un investimento di cento milioni di dollari e perché fa dei numeri impressionanti. «Limitarlo sarebbe un autogoal economico. È questo uno dei lati oscuri di Spotify: nelle classifiche convivono le produzioni private e i podcast che l’azienda stessa produce. È un colosso che fa quasi da monopolio a sé stesso».

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