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Esclusiva

Febbraio 9 2022
L’inverno demografico congela il futuro

Le incertezze sul lavoro frenano le nascite e l’autonomia dei giovani. Ma un’inversione di tendenza è possibile.

«La bassa fecondità non è destino». La conversazione sulle sconfortanti condizioni in cui versa la demografia italiana viene risollevata da queste parole della dottoressa Maria Rita Testa, docente di Demografia alla LUISS. Un tocco di luce, non l’unico, che spezza l’atmosfera cinerea e pessimista che grava sulla sala.  

Già negli anni Ottanta e Novanta si era iniziato a parlare di inverno demografico riferendosi a uno scenario di marginalizzazione demografica del continente europeo. Oggi quelle prospettive mostrano la loro fondatezza con la natalità crollata a picco fino a raggiungere l’allarmante soglia di 1,2 figli per donna. «La stabilità demografica sarebbe garantita – afferma il professore Alessandro Rosina dell’Università Cattolica – dalla nascita di almeno due figli per coppia. Un traguardo che si sta allontanando a dismisura».

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«Se non si inverte la rotta in modo repentino si rischia il tracollo entro il 2050- prosegue- Ben presto la forza lavoro non sarà più sufficiente a produrre i beni necessari». Si deve entrare nell’ottica che un figlio «non è un costo privato ma un bene collettivo su cui tutta la società investe».

Se a questo punto si è arrivati una causa c’è, o meglio, ci sono un insieme di ragioni. È la dottoressa Francesca Tosi, ricercatrice all’Alma Mater Studiorum di Bologna, a mettere un puntello sulla questione. «In Italia l’insicurezza economica e lavorativa rendono incidentata la transizione dei ragazzi verso l’adultità. Lo spostamento in avanti dell’età in cui si raggiunge l’indipendenza economica e abitativa ritarda la creazione di un nuovo nucleo familiare». E il ritardo nell’entrata del mondo del lavoro non è imputabile all’indolenza dei giovani. «Contrariamente a quanto si pensa i giovani italiani sono formati – puntualizza Tosi – ma la loro competenza non incontra condizioni retributive dignitose. Il problema non è dei giovani ma del mondo del lavoro che non offre loro posti di lavoro con salari adeguati al pieno raggiungimento dell’indipendenza dalle famiglie di origine»

Su questo punto interviene anche la professoressa Maria Rita Testa che, citando Draghi alla Stati generali della Natalità, parla di ansietà in riferimento ai mali dell’economia. Una sensazione, aggravata dall’effetto pandemia, che fa da deterrente alla realizzazione, tra gli altri, dei propri progetti genitoriali. Un rimedio, però, c’è ed è proprio la professoressa a suggerirlo. Si tratta di «stabilire nuovi equilibri e di un cambio di paradigma. Si devono mettere in campo dei pacchetti di misure attraverso cui incentivare la natalità ed è fondamentale che la loro adozione non sia temporalmente limitata».

Il riferimento è a modelli virtuosi come quello francese «che fa da scuola per quanto riguarda le agevolazioni fiscali e gli assegni di natalità». Ma anche dall’esperienza scandinava c’è da trarre insegnamento per quanto riguarda le politiche di genere all’avanguardia, tra cui «i congedi di paternità che permettono una più equa ripartizione dei compiti di cura tra uomini e donne». Fondamentale anche l’accessibilità ai servizi all’infanzia, i cugini tedeschi, infatti, garantiscono «l’accesso a scuole dell’infanzia e nidi in modo gratuito indipendentemente dalla situazione occupazionale della madre».

Un insieme di riforme strutturali che può trovare concretezza «nell’investimento oculato dei fondi del Pnrr» come suggerisce Pier Carlo Padoan, ex ministro dell’economia e attuale direttore di Unicredit.

Le possibilità, dunque, di fermare questo vuoto a perdere di nascite c’è e l’umore di chi esce dalla conferenza si intona un po’ di più al colore dorato del soffitto dell’aula.