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Esclusiva

Febbraio 16 2022
La frutta si trasforma in scarpe

Non più scarti destinati all’inceneritore ma capi d’abbigliamento di alta qualità. Un nuovo modello di produzione sostenibile si oppone al fast fashion

Uva, ananas e mele. Non è la parte finale di una vecchia lista della spesa, ma i materiali di cui potrebbero essere fatte le vostre scarpe. Uno scenario che non viene dal futuro. È già presente tra i prodotti della moda sostenibile, come quelli creati da Giuliana Borzillo e Dong Seon Lee.

Lei, 33 anni, product manager nel settore calzaturiero, lui stilista di 42 anni originario della Corea del Sud. Il loro è un progetto che nasce nel 2019 dalla difficoltà di trovare sul mercato scarpe prodotte con materiali ecologici, che al tempo stesso andassero oltre la ricorrente estetica minimal ed essenziale. Questo ha portato Giuliana a lanciare Dong una sfida: progettare una sneaker eco-sostenibile dal design ricercato. Nasce così il primo modello “Hana Fluo” «la cui suola curvilinea – sostengono – simboleggia l’arrivo di un’onda green e rivoluzionaria, mentre i colori fluorescenti dovevano riecheggiare le luci di Seoul». Nel 2020, grazie a una campagna di crowdfunding, hanno raggiunto la somma necessaria per dar vita al loro brand “ID.EIGHT”. «Un nome che – spiegano – ha un preciso significato: “Id” evoca la parola “identity” e indica l’importanza della coerenza e della riconoscibilità; “Eight”, sotto forma di otto rovesciato nel nostro logo, simboleggia la rigenerazione e la circolarità».

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La più grande novità introdotta dalla giovane coppia sta nelle materie prime utilizzate. Le loro sneaker sono composte in buona parte da materiali biologici, sottoprodotti delle attività agricole o industriali. Il primo è la Piñatex, un prodotto brevettato da un’imprenditrice spagnola, Carmen Hijosa, realizzato a partire dalla lavorazione degli scarti dell’ananas coltivato nelle Filippine. Il secondo è la AppleSkin, una “pelle” vegetale creata da un’azienda di Bolzano, la Frumat, che utilizza le bucce e i torsoli delle mele del Trentino. L’ultimo tessuto innovativo scelto da Giuliana e Dong è la Vegea, ottenuto dagli scarti della lavorazione vitivinicola, la vinaccia.

Rifiuti destinati a discariche o inceneritori, che vengono invece recuperati e trasformati in articoli alla moda. ID.EIGHT è l’esempio di un nuovo approccio produttivo che si sta affermando negli ultimi anni, attento agli sprechi e alla tutela dell’ambiente.

L’obiettivo di Dong e Giuliana è quello di «creare capi di ottima manifattura, il cui uso, se unito a una corretta manutenzione, può essere prolungato anche per decenni». Entrambi sono consapevoli della scommessa che rappresenta la loro scelta che, almeno per quanto riguarda il costo del prodotto finito, non può competere con i colossi del fast fashion.

scarpe Id eight

L’espressione “moda veloce” fu utilizzata per la prima volta dal New York Times nel 1989 per descrivere un modello di business basato sull’offerta ai consumatori di frequenti novità sotto forma di prodotti a basso prezzo e di tendenza. Ciò ha dato vita a un sistema che non realizza articoli resistenti all’usura, anzi, si rivolge a consumatori che rinnovano il proprio armadio a ogni stagione e non si preoccupano della durevolezza di ciò che indossano.

Tutto questo ha un prezzo. Secondo la ricerca “The environmental price of fast fashion” pubblicata sulla rivista specializzata Nature Reviews Earth & Environment, se la spesa media pro capite per l’abbigliamento e le calzature nell’Unione Europea e nel Regno Unito è passata dal 30 per cento negli anni Cinquanta a solo il 5 per cento nel 2020, il costo di questa rivoluzione, dal punto di vista ambientale, è alto. La fashion industry è infatti responsabile di circa il 10 per cento delle emissioni globali di Co2. A questo si aggiunge un massiccio consumo di acqua (79 trilioni di litri l’anno) e un vasto contributo all’inquinamento delle risorse idriche e degli oceani. L’impatto negativo sull’ambiente è dato anche dal fatto che, a fronte dei circa 13 kg di vestiti a persona prodotti ogni anno, ci sono in tutto più di 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili destinati a essere inceneriti o gettati in discariche.

Secondo Livia Crispolti, docente di Design della moda presso l’università “La Sapienza” di Roma, «il successo del fast fashion si deve alla capacità delle aziende di cambiare la mentalità dei consumatori. I capi di abbigliamento non vengono più visti come beni di uso, concepiti per durare nel tempo, ma solo e soltanto come beni di consumo. Pensiamo al fatto che le collezioni di abiti delle principali marche non sono due o tre l’anno, in base alle stagioni, ma quasi cinquanta. Ciò comporta ritmi di produzione velocissimi e tempi di obsolescenza dei capi molto brevi. Si origina nel consumatore una necessità non reale di beni. Si desidera averne sempre di più. È un modello di business che non può andare avanti ancora per molto. È necessario orientarsi verso una logica circolare che non crei rifiuti e che tenti di rigenerarsi di continuo, avviando un modello produttivo virtuoso».

La bioeconomia, intesa come quel sistema che sfrutta le risorse biologiche, inclusi gli scarti, come base per la produzione di beni ed energia, potrebbe rappresentare una risposta efficace. Nel settimo rapporto “La Bioeconomia in Europa”, redatto dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, si sottolinea come questo settore fornisca occupazione a oltre due milioni di persone generando, nel 2020, un output di circa 317 miliardi di euro. Un sistema, quello delle produzioni bio-based, che abbraccia vari settori come la filiera agro-alimentare, il Sistema moda, l’industria della carta, il settore chimico-industriale, la filiera del legno e l’industria farmaceutica. A trainarne lo sviluppo sono in gran parte le start-up, insieme a università e centri di ricerca.

scarpe Id eight

Per Crispolti, «la scintilla nasce proprio dai giovani ricercatori e designer, che spesso hanno dato vita a progetti innovativi come i tessuti di terza generazione, realizzati dal recupero di materiali biologici». Nel caso del settore moda, il prezzo spesso elevato del prodotto finito si deve all’impiego di tecniche in gran parte sperimentali. Secondo la docente «siamo ancora agli inizi, ma la transizione è in atto. Nella storia, le avanguardie sono sempre state l’opposizione a un sistema consolidato. Ci stiamo avvicinando alla deadline del fast fashion: un modello di produzione incosciente, insostenibile per il Pianeta. Certo, ci vorrà tempo per cambiare la mente dei consumatori. La chiave per agevolare una transizione ecosostenibile è l’informazione. Dobbiamo renderci conto del reale costo che ha quello che indossiamo, solo così si può sperare che molti si orientino verso opzioni più etiche». Alla consapevolezza si accompagnano, poi, la ricerca e le nuove tecnologie: «L’avvio di un nuovo corso è possibile mettendo a sistema le idee, ed è ciò che i giovani stanno già facendo».