«Guardali! Non sanno cosa gli sto facendo.»
Una voce baritonale rompe il silenzio della sala, sotto il ritmico ticchettio della macchina da presa e contornando sottilmente le immagini in bianco e nero dei bambini che salutano il Duce, ignari di cosa stia accadendo, come «gattini ciechi avviluppati in un sacco. La cecità della vita riguardo a sé stessa.»
Massimo Popolizio sorprende il teatro Argentina – gremito di spettatori – in un adattamento in trenta quadri dell’omonimo romanzo storico di Antonio Scurati. Un libro recitato: una narrazione in terza persona dove ogni personaggio appare contemporaneamente narratore e attore di sè stesso.
Quasi un inno alla violenza, una follia brutale, M il figlio del secolo porta in scena l’ascesa di Mussolini dal 1919 al 1923, terminando con la marcia su Roma e la morte di Giacomo Matteotti, che appare eroe solitario dell’opera, baluardo dei diritti dei più deboli, ossimorico personaggio lucente nel buio della follia squadrista. «Il fascismo non è il virus che si propaga, ma il corpo che lo accoglie.»
I personaggi
Matteotti, interpretato da Raffaele Esposito, è idealista e uomo di Stato. Il “Polesine”, la sua terra d’origine, si impone al pubblico come un sogno spettrale popolato di disgraziati, disposti a dissotterrare il cadavere di una vacca malata pur di placare la fame. Il pensiero di Matteotti va tutto alla «terra anfibia e pellagrosa» da cui proviene, che incarna il dramma del popolo cui il deputato socialista consacra la sua intera carriera.
Indispensabile al suo fianco è la figura della moglie Velia Titta. Fili di un sentimento delicato e commovente si intrecciano a comporre la storia di Giacomo e Velia, fatta soprattutto di assenze e attese, ma a nessuno dei due importa. Il loro amore cresce e si alimenta delle lunghe lettere che si scambiano in modo ininterrotto per oltre dieci anni.
E’ alla dolce carezza di lei che si rivolge l’ultimo pensiero di Matteotti nella scena carica pathos in cui il fantasma del deputato ammazzato dagli squadristi compare dopo la notizia del ritrovamento del suo cadavere «compresso a forza di calci in un tumulo troppo piccolo.» La scena si sta per chiudere quando un impeto di commozione rompe il silenzio e dalla platea qualcuno grida ‘Viva Giacomo Matteotti!’ subito seguito dallo scrosciare degli applausi.
La devozione che lega gli amanti si contrappone alle tante donne di cui si circonda Mussolini, assiduo frequentatore di bordelli e amante vigliacco, pronto a uccidere il figlio illegittimo avuto da Ida Dalser, colei che con il suo denaro finanziò l’ascesa politica e il suo giornale: Il Popolo d’Italia; e a far abortire più volte la giovane segretaria, Bianca Ceccato.
Ma c’è una donna destinata a rappresentare il centro di gravità del giovane Mussolini: Margherita Sarfatti (Sandra Toffolatti). Raffinata critica d’arte, punto di riferimento del panorama culturale italiano e internazionale e interprete magistrale dei Ruggenti Anni Venti, si presenta come la «Papessa dei futuristi.» Sarfatti è colei che educa Mussolini, lo introduce nell’alta società e lo spoglia delle sue vesti di omiciattolo di provincia. è la vera artefice del mito, della figura del domatore di leoni, del politico, del Duce che Mussolini si troverà un giorno a interpretare. è lei che si prepara «a fare la storia per interposta persona.»
In confronto, Benito è una figurina goffa, insignificante, a tratti ridicola, una marionetta di cui Sarfatti è il ventriloquo. Nelle stelle legge il futuro glorioso che attende il Duce ed è lei stessa a vestirlo nel giorno in cui «lo zingaro della politica, l’autodidatta del potere» riceve dal Re l’incarico di capo del governo. Pian piano la profezia di Margherita si compie e con essa il suo destino. La bestia che lei stessa ha creato la abbandona, condannata a un’attesa mai soddisfatta nella camera dell’Hotel Continentale, in compagnia del solo riflesso del suo volto che invecchia, mentre lui «sale le scale del potere.»
Mussolini è diventato, a questo punto, interprete di un fascismo «strato intermedio tra capitalismo e comunismo, alla cui guida non ci sono più i guerrieri ma i politici.» L’immagine del Duce si compone lentamente e il suo volto si deforma, fino alla sintesi estrema: un sacco di juta, maschera anonima del boia della storia che beffardo declama: «Nessuno voleva addossarsi la croce del potere… Bene, la prendo io.»
La scena
Una scenografia asciutta sfrutta delle strutture mobili su rotelle, che rimandano l’imponenza degli edifici marmorei del periodo fascista, prediligendo il soffitto per i cambi ambiente. I ruggenti anni venti si manifestano nei lucenti lampadari che pendono dal palcoscenico, e nel ritmo sincopato del jazz su cui lo stesso Mussolini (Massimo Popolizio e Tommaso Ragno) danzano in frac e bastone. Bagni di foglie d’alloro e pioggia artificiale investono la scena. Magistrale l’uso delle luci di Luigi Biondi, che instancabili accompagnatrici dei personaggi riempiono di chiaroscuri i volti contorti e rabbiosi dei personaggi.
Lo spettatore ride del riadattamento dai tratti fortemente grotteschi, ammaliato dalla finzione del teatro, in una narrazione tutt’altro che fantasiosa. È solo quando lo spettacolo finisce in una ring composition alla greca, che lo spettatore torna alla realtà. Quel ‘guardali’ dell’inizio diventa una diretta esortazione allo spettatore a chiudere con la finzione narrativa e comprendere ciò che è realmente stato «il figlio del fabbro, no, il figlio del secolo» Benito Mussolini.
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