Il futuro ha gli occhi buoni di Eugenio, operaio ucraino che vive da vent’anni a Monselice, in provincia di Padova. Dallo scoppio del conflitto fa il volontario come interprete nell’hub di prima accoglienza per i profughi che scappano dalla guerra. «All’inizio venivo qua perché volevo dare una mano e sentirmi utile per chi voleva mettersi in salvo, ora sono quasi più utili loro a me. Passare del tempo insieme è come fare terapia», racconta mentre fa strada tra i piani di un vecchio ospedale rimesso in funzione per l’emergenza dei profughi. I genitori di Eugenio abitano a Mykolaiv e sono rimasti in Ucraina perché suo fratello ha 32 anni e potrebbe essere chiamato alle armi da un momento all’altro. «Li sento ogni giorno, quattro volte al giorno», dice, gonfiando un po’ il petto e ricacciando indietro le lacrime di emozione.
Sono cinque i luoghi come questo presenti in Veneto. «La nostra è più una regione di transito. I profughi arrivano nelle regioni come Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino, ma poi si spostano nelle grandi città, come Roma o Milano», spiegano dalla Protezione Civile Veneto. Fino ai diecimila profughi l’accoglienza è in carico alle prefetture, attraverso strutture come i Cas. Oltre i diecimila arrivi, invece, la competenza passa alla regione. Avendo superato da settimane questa soglia, il Veneto ha deciso di creare questi hub. «Sono strutture di passaggio, per la prima accoglienza. Le persone vengono ospitate e poi destinate altrove».
Appena i profughi arrivano fanno il tampone di controllo per il covid e poi viene fornita loro una tessera sanitaria provvisoria. Della parte legale e delle sistemazioni a lungo termine si occupa poi la Prefettura. Lo staff della struttura è composto dai volontari della protezione civile, medici e volontari. Due volte a settimana sono presenti anche degli psicologi esperti in Emdr, una particolare terapia che si occupa di trattare le persone che hanno subito un trauma, come un grave incidente o una guerra.
La macchina dell’accoglienza messa in moto è efficiente e precisa, come non è mai stato per altri tipi di emergenze. Aperta il 18 marzo, la struttura ancora non è perfetta come sottolinea Gianmaria Gioga, direttore del distretto sociosanitario di Padova. I volontari corrono da un piano all’altro per cercare di soddisfare ogni bisogno dei profughi, per necessità che vanno dall’accompagnarli in Prefettura a medicare un polso rotto giocando a pallone.
«Chissà come sarebbe andata se ci fosse stata un’organizzazione del genere per tutte le crisi umanitarie del passato», si domanda Alessandro Benvengù, responsabile dell’hub di Venezia Noale. Il capo infermiere evidenzia come la risposta che l’Italia ha dato a questa particolare emergenza dimostri che non mancano risorse e mezzi per costruire un sistema di accoglienza che possa essere applicato sempre.
Gli ospiti dei centri sono per la maggior parte donne e bambini. Gli uomini dai 18 ai 60 anni non possono lasciare il Paese perché dall’inizio dell’invasione in Ucraina vige la legge marziale. Ci sono anche casi di minori non accompagnati o di donne che arrivano con tanti bambini, molti dei quali non loro ma figli di parenti o amici che glieli hanno affidati.
Al terzo piano dell’hub di Monselice vivono, in due camere adiacenti, quattro donne alte, curatissime e dallo sguardo deciso. Carolina faceva l’estetista a Mykolaiv, ha le sopracciglia tatuate, il fisico atletico e le unghie lunghissime e colorate. Poi c’è Marianna, che ha lasciato il suo lavoro da designer per scappare in Italia con sua madre Ludmila. Vengono da anche loro da Mykolaiv, una delle città più in difficoltà in questa fase della guerra. Galina, la zia di Marianna, era una maestra elementare a Karkhiv ed era andata in pensione solo l’anno scorso. «Ora vogliamo metterci a lavorare», sorprende la decisione e la forza nelle loro parole. Spiegano che sentono di star sprecando le loro giornate nell’hub con poco o nulla da fare: «Vogliamo renderci utili e poter dimostrare la nostra gratitudine verso il vostro Paese trovando un impiego qua».
In ogni piano una stanza è diventata una mensa in cui gli ospiti possono condividere i pasti. Finito di mangiare, Polina, 10 anni, sfoglia i suoi disegni e scrolla il feed di Tik Tok. Va molto fiera dei video registrati durante il viaggio in macchina attraverso la Polonia, per raggiungere l’Italia. È con la mamma, che la guarda con dolcezza. «Tra poco lasceremo l’hub per trasferirci dai nostri parenti in Inghilterra», dice mentre le accarezza la testa e la esorta a non dare fastidio agli altri che mangiano accanto a lei. Molti non riescono ancora ad abituarsi al cibo, in Ucraina si mangiano zuppe calde e si fa la colazione salata. Pochi degli ospiti sembrano apprezzare la pasta con zucca e speck servita nei piccoli contenitori di plastica rossi.
Nel giardino dell’hub tra i blocchi di verde e il cemento spunta una palla. I bambini, ospitati al primo piano dell’ospedale, iniziano a palleggiare. «Uno di loro sarà presto accolto da una famiglia di Napoli», spiega Oksana, giovanissima interprete. Nata in Ucraina, vive a Monselice da quando è bambina. Anche lei, come Eugenio, vuole dare una mano. «Questa settimana ho fatto moltissime ore di volontariato, qui c’è tanto da fare ogni giorno».
Dopo pranzo molti degli ospiti si preparano per andare a fare una passeggiata in paese o a Padova. «Qui si cerca di passare il tempo e distrarsi un po’, anche se è difficile. Ieri i bambini hanno organizzato una gara con i pattini a rotelle tra i vari piani dell’ospedale», racconta Eugenio, l’interprete. «È libero qua? Posso sedermi?», chiede. Vicino alla finestra che dà sul grande cortile deserto dell’ospedale, che si erge grigio e imponente nella campagna veneta, siede Anastasia. Ha 18 anni ed è scappata da Kharkhiv con sua sorella. I suoi genitori e il fratellino non hanno voluto lasciare il Paese. Anastasia tiene lo sguardo rivolto in avanti, i suoi grandi occhi azzurri sono inespressivi. Risponde con l’aria distratta, come se fosse anestetizzata e non sentisse più nulla, mentre il sole pallido di aprile filtra dalle finestre. Sembra scegliere le parole con cura, soppesandole per sentire tutto il peso di ciò che dice. «Ho lasciato Kharkiv tardi, quando la città era ormai semi distrutta, se fino a poco tempo fa io e i miei coetanei potevamo avere un po’ di speranza per il futuro, ora ne rimane ben poca». Vorrebbe tornare e laurearsi in scienze ambientali, aveva iniziato l’università da pochissimo quando è iniziato il conflitto. A volte Eugenio sospira, quando deve tradurre domande che reputa troppo personali o delicate, sembra voler entrare in punta di piedi nelle vite dei profughi.
«È molto difficile rispondere a come ci si sente a lasciare tutto, pensando alla tua famiglia in pericolo a centinaia di chilometri da te. Ti senti impotente, non puoi fare nulla per loro dall’Italia. A volte qui in ospedale il wifi non prende, quando non riesco ad aggiornare le notifiche, un’ondata di paura mi travolge. Ogni cinque minuti penso ai miei genitori e al mio fratellino. Ho una paura che non riesco neanche a descrivere a parole», racconta la ragazza.
L’hub di Monselice è un luogo ingarbugliato, commuove per l’umanità, sorprende per l’efficienza, a volte inquieta per la fatiscenza del luogo. Eugenio continua ad andare su e giù, doveva tornare da sua moglie e suo figlio per le 15, ma nel centro hanno ancora bisogno di lui. I rifugiati sembrano congelati in una strana attesa, iniziata dal momento in cui hanno dovuto lasciare l’Ucraina. Sono bloccati in un limbo mentre aspettano di poter chiamare un altro posto “casa”. Galina, la maestra di Kharkhiv, sussurra «Per chi non ha vissuto questa guerra è impossibile comprendere cosa significa sentire le sirene. Non capirete mai la nostra situazione perché una cosa è vedere un razzo in tv, un’altra è sentirlo che scoppia di fianco a casa tua. Dentro di te la guerra non finisce neanche quando fuggi, il rumore delle sirene continua a rimbombare in testa».
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