«In tutti questi anni, mai nessuno ha visto nazisti in Ucraina, per non parlare dei bambini. Si è mai visto un bambino nazista?». Irina è una donna ucraina che da anni vive a Guastameroli, una frazione di Frisa, piccolo paese in provincia di Chieti (Abruzzo) con suo marito Giuseppe, originario di lì. Dopo un lungo viaggio durato cinque giorni, il 16 marzo scorso Irina e suo marito hanno accolto Marina, sua cugina di terzo grado, e quattro dei suoi sei figli che scappavano dalla città di Mykolaiv, vicina al Mar Nero. Da Mykolaiv a Odessa, poi da Odessa a Izmail, passando per la Moldavia. Poi l’ingresso nell’UE attraverso la Romania e infine l’arrivo in Slovenia, dove il pullman sul quale viaggiava la famiglia si è rotto, abbandonando i profughi in un Paese a loro sconosciuto.
Così, Irina e Giuseppe sono partiti in macchina per andare a prenderli e portarli a casa loro, ma durante il viaggio i bambini non smettevano di raccontare tutti gli orrori che hanno visto nel loro Paese da quando è scoppiata la guerra. Emozioni che hanno trasformato in disegni strazianti, ma allo stesso tempo pieni di speranza. «Dopo qualche giorno sono arrivate anche le nonne con gli altri due figli gemelli di Marina, che erano stati mandati momentaneamente in Polonia, dove abita suo fratello. Invece, il marito di mia cugina è rimasto a combattere prima a Chernihiv e ora a Kiev: non lo sentiamo tutti i giorni, ma sappiamo che al momento sta bene».
Dopo averli ospitati a casa loro per un po’, Irina e Giuseppe si sono attivati per aiutare Marina e la sua famiglia a preparare i documenti per il permesso di soggiorno e a trovare una casa abbastanza grande da accoglierli tutti e nove. Ma nell’organizzare il tutto non sono stati lasciati soli. «Quando sono arrivati in Italia, l’accoglienza degli abitanti di Guastameroli è stata molto calorosa e tutti ci hanno aiutati tantissimo. Per questo, li ringraziamo con tutto il cuore».
Forse le loro vite non torneranno più come prima, ma per il momento Marina, i suoi figli e le nonne cercano in tutti i modi di ricostruirle in Italia. Prima del 24 febbraio, Marina era una casalinga che si occupava non solo della campagna, ma anche di allevare i suoi figli quando il marito, militare di professione, non era a casa.
I suoi bambini, invece, andavano a scuola e avevano i loro hobby. Come il figlio più grande di Marina, di 12 anni, che a Mykolaiv frequentava una scuola di ballo. «Quest’anno avrebbe dovuto girare l’Europa in tournée, ma ovviamente non è stato possibile. Ora pare che abbia trovato una scuola di danza a Pescara, in cui continuare a coltivare la sua passione. Purtroppo, i suoi compagni di ballo ucraini non sono ancora riusciti a lasciare il Paese: vivono nei bunker con altre persone, senza acqua da più di dieci giorni».
Per il momento, i bambini non vanno ancora a scuola perché non conoscono la lingua, ma frequentano una struttura ricreativa dove possono imparare a comunicare con gli altri bambini e integrarsi, anche grazie alla presenza di un’insegnante bilingue.
La storia di Irina e Marina somiglia a quella di tanti altri che, in fuga dal conflitto, hanno trovato accoglienza nelle case di familiari già presenti sul territorio italiano. Non è solo la comunità ucraina, però, che ha offerto accoglienza ai profughi in arrivo in Italia.
Emblematico è il caso di Seravezza, un piccolo comune toscano dove la giunta, rappresentata dall’assessore al sociale Stefano Pellegrini, si è subito attivata per raccogliere la disponibilità dei privati. «Probabilmente siamo stati tra i primi ad attivarci in tal senso, perché abbiamo ricevuto mail da tutta la Toscana. Alcuni ci hanno scritto anche da fuori regione. La disponibilità della cittadinanza non si è fatta attendere, ma organizzare questo tipo di accoglienza presenta diverse difficoltà burocratiche.
«Si deve comunque passare dai Cas, i centri di accoglienza straordinaria. Ci sono regole stringenti. Anche la condizione delle case deve rispondere a dei parametri. Non possiamo essere noi, come Comune, a chiamare i privati per assegnare loro dei profughi da accogliere». C’è poi la questione dei fondi perché attualmente i costi dell’accoglienza sarebbero a carico della famiglia che decide di accogliere. «Ad oggi il governo non ha ancora stanziato fondi, ma a giorni dovrebbe uscire il finanziamento di 300 euro per gli adulti e 150 per i minori. Questo per tre mesi, che comunque non sarebbe molto».
Al di là delle difficoltà burocratiche, superato un primo momento di preparazione dell’accoglienza in cui si cercava di raccogliere tutte le disponibilità, l’assessore ha scelto di privilegiare un tipo di ospitalità che garantisse una progettualità. L’accoglienza nelle famiglie, dice Pellegrini, «non è stabile». è importante che sia una comunità a farsi carico dell’accoglienza affinché si possa innescare un percorso di integrazione, che è fatto di tanti elementi. Sanità, scuola e lavoro sono le tre parole chiave che tornano spesso sulla bocca dell’assessore.
«In collaborazione con il comune di Stazzema, limitrofo a quello di Seravezza, abbiamo organizzato l’accoglienza di una famiglia. Una madre con dei bambini che sono stati ospitati a Volegno, una piccola frazione del comune di montagna. Il paese non solo si è impegnato, ma ha anche organizzato una festa di benvenuto per loro. Noi sappiamo che, che arrivino o meno i contributi del governo, l’accoglienza è garantita».
Anche nel territorio comunale di Seravezza, l’accoglienza è stata declinata in questo modo. «I nove profughi che si trovano sul nostro territorio si trovano nei locali parrocchiali grazie alla disponibilità di Don Roberto. Sappiamo già che due di loro, una madre e suo figlio appena 18enne rimarranno con noi. Entrambi hanno trovato un lavoro, siamo stati molto contenti».
In un conflitto che ha costretto soprattutto anziani, donne e bambini a lasciarsi tutto alle spalle, «macerie, campagne, affetti», c’è anche chi, come la bisnonna di Marina, 85 anni, sa reagire con ironia pungente: «dobbiamo ringraziare i russi perché ci hanno aiutato a cambiare radicalmente le nostre abitudini e ad abbandonare le nostre case, bombardate, per andare a vivere all’estero».
Leggi anche: L’educazione è balsamo per le ferite di guerra, Imparare per non pensare alla guerra, «È inaccettabile come la guerra danneggi i corpi dei bambini»