«Mi hanno preso a calci per più di dieci minuti, gli altri stavano a guardare divertiti e bevevano caffè mentre i due poliziotti polacchi mi ammazzavano di botte». Ali ha 42 anni e ha passato metà della vita in Europa, cacciato via ovunque si rifugiasse. Essere iraniano è la sua unica colpa. «Se vieni dal Medio Oriente non importa chi tu sia, se sei musulmano, ebreo o cristiano, le tue origini saranno la tua punizione».
Oggi Ali si trova nella città di Gomel’, nel sud-est della Bielorussia dopo essere scappato dall’Iran a dicembre, per la terza volta. «Da adolescente sono stato frustato due volte, la prima per aver parlato con una ragazza, la seconda per aver bevuto alcol. A quel punto ho deciso di abbandonare l’Islam e, poco dopo, anche il mio Paese». Era il 2000 quando è scappato in Norvegia, dove ha vissuto illegalmente prima di essere scoperto ed espulso. Poi il carcere e di nuovo la fuga dall’Iran per tornare in Norvegia. Ancora una volta il permesso di soggiorno viene negato. Ali viene messo in carcere e riesce a uscire corrompendo i funzionari iraniani. «Dopo essere stato rilasciato non avevo più problemi con lo Stato, ma appartenevo a una comunità LGBTQ+». Quando la polizia lo ha scoperto, per Ali non c’era altra scelta se non lasciare Teheran.
È da questo momento che la sua storia si intreccia con quella di migliaia di migranti che, dall’estate del 2021, si sono diretti al confine tra Polonia e Bielorussia, nel tentativo di entrare nell’Unione Europea per ricevere asilo. In quel periodo, il governo del presidente bielorusso Alexander Lukashenko aveva iniziato a distribuire visti tramite agenzie di viaggio registrate in Bielorussia, con la falsa promessa che da Minsk non sarebbe stato difficile entrare in Polonia. Ma è proprio in quel limbo, sospeso tra i due confini, che chi scappava da guerra, fame e persecuzioni ha trovato botte, torture e morte.
Secondo l’ultimo rapporto di Human Rights Watch (HRW), ONG che si occupa della difesa dei diritti umani, risalente a novembre 2021, «i visti, l’assicurazione di viaggio obbligatoria, il viaggio fino al confine e gli hotel a Minsk sono inclusi nel prezzo e, a volte, anche il biglietto aereo. A seconda del paese di origine, e se il biglietto aereo è incluso o no, i prezzi tendono a variare tra i 3.000 e i 17.000 dollari a persona».
Nell’ultimo periodo, gli attivisti riportano un cambiamento. «La maggior parte delle persone ora arriva dalla Russia, a Mosca, e da lì raggiunge la Bielorussia» dice Zosia Krasnowolska della fondazione Hope and Humanity Poland. Anche Ali, a dicembre 2021, si è diretto verso la Russia. Lì ha venduto il suo passaporto per 500 dollari e ha utilizzato la metà per pagare un taxi fino a Minsk. Due settimane fa ha provato ad attraversare il confine con la Polonia. «Io e altre sei persone abbiamo pagato un taxi che ci ha lasciato in un villaggio, da lì abbiamo camminato per sette ore fino al confine». A quel punto sono stati fermati dalla polizia bielorussa che ha dato loro due scelte: tornare indietro o pagare per attraversare. Chi aveva i soldi è stato portato in un punto di raccolta che, come spesso accade, era un luogo aperto, in mezzo al nulla, esposto alle rigide temperature bielorusse. I migranti sono stati portati davanti al filo spinato, tagliato dai poliziotti che hanno iniziato a spingerli verso il confine. «A quel punto devi correre per non essere preso dai polacchi. È difficile correre nella neve, mi sembrava che le scarpe pesassero dieci chili. Nove persone su dieci vengono prese» racconta Ali. Coloro che vengono catturati dalla polizia polacca subiscono ogni sorta di tortura: vengono fatti sbranare dai cani, sono lasciati senza vestiti al freddo, vengono picchiati e costretti a firmare fogli di deportazione, scritti in una lingua che molti profughi, provenienti in maggioranza da Iraq, Yemen, Siria, Afghanistan, non comprendono. I telefoni vengono sequestrati e distrutti, così da impedire di chiamare i soccorsi o filmare le torture.
L’alternativa all’essere rimandati in Bielorussia è la reclusione nei centri di detenzione polacchi. «In questi luoghi manca tutto, dai vestiti al cibo. Ci sono persone che sono lì da cinque mesi con addosso gli stessi indumenti. Capita che all’improvviso la gente venga lasciata andare, altre volte le autorità polacche tentano il rimpatrio. Tutto questo agli ucraini che scappano dalla guerra non accade, vengono fatti passare senza problemi. Il motivo è che, a differenza degli altri, loro sono bianchi» riporta Zosia Krasnowolska.
I pochi che riescono a sfuggire alle forze di polizia si ritrovano nel limbo: la foresta di Bialowieza. La zona è divisa in due parti. La «buffer zone» è un corridoio largo poche decine di metri tra i confini. È lì che i migranti vengono intrappolati per settimane. Fra due muri, in mezzo ai fili spinati delle frontiere. «Alla ‘buffer zone’ non ha accesso nessuno, proprio nessuno, nemmeno i militari polacchi e bielorussi. I profughi vengono spinti in una terra desolata», dice Silvia Cavazzini volontaria dell’associazione Ghandi Charity. «Da lì tentano di entrare in Polonia e di andare ai posti di frontiera, come ai confini con l’Ucraina, dove si può presentare domanda di asilo, ma vengono tutte rifiutate. Così rimane solo la possibilità di ingresso illegale», ma a farcela sono in pochi. «Non riescono a entrare perché vengono ricacciati indietro dalle guardie di frontiera, che li allontanano dal filo spinato anche con gas lacrimogeni. Tornare indietro in Bielorussia, una volta finite le scorte di cibo e acqua, è complicato perché dall’altro lato ricevono un trattamento anche peggiore». Quella landa tra i confini delle due nazioni si trasforma in una trappola per centinaia di persone, tra cui molti bambini.
Chi riesce a varcare il confine, comunque, non trova l’Europa che immaginava. Appena all’interno del territorio polacco è stata istituita una zona rossa, in virtù di quella che per il governo polacco è un’emergenza immigrazione. «Nella ‘red zone’ hanno accesso solo le loro guardie di frontiera e gli abitanti nella zona», continua Silvia. «Il comportamento della Polonia è chiaro già da settembre: ha istituzionalizzato la pratica del push-back, che è illegale, e non permette l’intervento delle organizzazioni umanitarie. È tremendo che una cosa del genere accada in Europa».
L’unico modo per i migranti per non essere completamente esposti è rifugiarsi nella foresta. «Una zona bellissima che stanno distruggendo, nonostante sia patrimonio Unesco» dice Zosia. «La Polonia sta costruendo un muro al confine che va contro ogni forma di protezione che dovrebbe ricevere una delle foreste più antiche d’Europa. È come se si costruisse un muro nel mezzo della Foresta Amazzonica, è un crimine contro l’ambiente e contro le leggi umane». I polacchi che tentano di aiutare chi è rimasto bloccato al confine vengono perseguitati. «Una mia amica è indagata per terrorismo, il suo conto corrente è stato bloccato solo per aver organizzato una raccolta fondi» riporta la volontaria di Hope and Humanity Poland.
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Non si sa con esattezza quante persone siano morte sul confine. A novembre 2021, secondo il governo bielorusso, sul suo territorio erano presenti circa settemila persone, mentre i media polacchi riportavano circa trentamila tentativi di attraversamento. Nessuno dei due Paesi ha mai fornito stime ufficiali. Zosia riferisce che «sono solo venti le morti confermate dalla Polonia. Noi di Hope and Humanity Poland crediamo che siano centinaia, se non migliaia. Una settimana di dicembre, una persona che si trovava all’aeroporto di Minsk per essere rimpatriata ci ha riferito di aver visto circa novanta corpi di kurdi che venivano portati in Iraq. Molti dicono di aver trovato cadaveri nella foresta, adulti e bambini. Crediamo che parecchi di questi vengano distrutti dalle autorità per non essere trovati». Al confine Ali è stato massacrato di calci solo per essersi rifiutato di firmare i fogli con cui avrebbe dovuto acconsentire alla deportazione in Bielorussia. «Più il tuo corpo è robusto, più colpiscono forte, ma io alla fine non ho firmato». Una volta rimandati indietro è difficile tornare a Minsk, chi non ha i soldi per corrompere la polizia viene lasciato dov’è, in mezzo alla neve, senza un posto dove ripararsi.
Ali è tra i pochi che sono riusciti a tornare. Oggi è ospite di un centro di accoglienza per rifugiati, solo, senza soldi né documenti, sostenuto solo da una piccola comunità di cattolici protestanti. Il 22 luglio scadrà il suo visto temporaneo e sa solo che le speranze di ottenere un permesso di soggiorno sono quasi nulle. Si chiede che tempo faccia in questi giorni in Italia. Quando apprende del caldo sole di primavera, ricorda Teheran dove d’estate «si arrivava anche a 50 gradi», a differenza del freddo polare dei luoghi in cui ha vissuto negli ultimi vent’anni. Tornare in Iran oggi equivarrebbe alla tortura, al carcere e all’emarginazione. «A Gomel’ non trovo lavoro perché in Bielorussia nessuno parla la mia lingua e pochi capiscono l’inglese. Non ho nessuno e, anche se trovassi qualche iraniano, lui non vorrebbe avere niente a che fare con me, una volta saputo chi sono davvero. Non so cosa mi accadrà tra qualche mese ma a voi che siete in Europa chiedo solo una cosa: non dimenticatevi di me»
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