Il cinema offre il piacere. Seduce trasportando il pubblico attraverso il buco di una serratura, rendendolo complice e voyeur, testimone invisibile di una storia. Quando un film spezza questo patto segreto e obbliga a star scomodi sulla poltrona quel che vuole comunicare è sempre una rivoluzione. Un cambiamento che ha bisogno di attenzione.
Titane di Julia Ducournau ne è l’esempio più radicale e sperimentale degli ultimi anni, un ribaltamento del principio di passività femminile teorizzato da Laura Mulvey nel testo che fonda il femminismo cinematografico, Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975). Nel descrivere la donna come immagine e l’uomo come portatore dello sguardo, nel cinema classico e mainstream, Mulvey scrive che «nel loro tradizionale ruolo di esibizione, le donne sono guardate e sono messe in mostra», anche quando sono protagoniste. È la connotazione stessa della macchina da presa a renderle oggetti passivi di contemplazione. Alexia (Agathe Rousselle), la protagonista del film, invece si appropria dello sguardo della camera e ne fa un’arma contro il pubblico in continuità con le intenzioni della regista.
La formula scelta è quella del body horror estremo, dai tratti fantascientifici. Alexia infatti, incinta di un essere ibrido, umano e meccanico, sopporta il suo corpo mutare in modo innaturale dall’interno, mentre all’esterno lo tortura cercando di rendersi irriconoscibile e sfuggire ai fantasmi del passato.
Le lacerazioni, le ossa rotte e le pesanti fasciature per coprire le forme, anche quando portano a distogliere lo sguardo, attraversano lo schermo e arrivano sulla pelle attraverso i suoni, sordi e spaventosi. Il corpo dello spettatore reagisce al corpo di Alexia, ne è disgustato, terrorizzato e attratto, di fatto impotente.
Julia Ducournau rivendica così la mostruosità del femminile come teorizzata da Jude Ellison Sady Doyle, «quel terribile potere che manda in frantumi il mondo e che è solo, dopo tutto, il potere sul proprio corpo» [Mostruoso femminile, Edizioni Tlon, 2021]. Rielabora decenni di rappresentazioni e narrazioni di corpi contaminati, impuri, temuti e vessati, di streghe, sirene e ninfe, attraverso l’immagine androgina e fluida di Agathe Rousselle e attraverso una storia che, sotto l’imponente impalcatura estetica, racconta soprattutto un percorso di accettazione di sé, seppur violento e accidentato.
Titane è l’affermazione di un femminile che rifiuta la passività dello sguardo e dell’azione e che non teme di esporsi anche quando non incontra il favore dell’altro. È l’atto nascita di un nuovo cinema e non a caso si conclude con il doloroso parto di qualcosa prima impensabile.
Leggi anche: Il Test di Bechdel e il cinema femminista del 2021