Editoriale di Valeria Verbaro
Il colore è uno spettro, un ventaglio di possibilità, principio basilare della fisica prestato all’interpretazione psicologica ed emozionale della realtà. È un fenomeno scientifico ma soggettivo, che non esiste al di là della percezione sensoriale individuale, eppure portatore di una sua convenzionale universalità. Il colore è un codice condiviso, un insieme di senso che all’interno di un gruppo sociale contribuisce a ordinare il mondo e a marcarne i passaggi antropologici più significativi.
Simbolo, bandiera, segno visibile di identità e appartenenza, rivendicato con forza nelle strade e negli spazi collettivi, nelle manifestazioni arcobaleno e al grido di black lives matter. Unisce sotto le insegne di una stessa squadra, di uno stesso Stato e di uno stesso corpo militare, e separa, determinando privilegi culturali e civili nella struttura profonda delle società.
Significante arbitrario di categorie umane, di fedi sportive e rituali sacri, racconta tanto con la sua presenza che con la sua assenza. Mutuando il termine dal vocabolario anglosassone, non esiste più una società pluralista che non sia anche colour conscious e non esiste società inclusiva che abbia senso definirsi colorblind, indifferente e neutra rispetto alla diversità. Reclamare i propri colori è un modo per ricollocarsi rispetto al mondo, per riconoscersi in relazione all’Altro. È un atto di liberazione e di autoaffermazione per chi appartiene alla comunità LGBTQIA+ ed è un atto di rivendicazione politica costante. Nell’arte diventa espressione visiva autonoma, forma sciolta (ab-soluta) dal contenuto: dal marmo candido di Carrara, che nel suo bianco contiene in potenza tutte le sfumature del reale, fino alle paste delle tempere o degli olii, diverse per ogni pittore e per ogni sguardo che prova a rappresentare l’immanente, dai drappi rubini di Caravaggio ai caotici cieli in movimento di Van Gogh. Nel cinema, invece, il colore convive con il suo opposto, con la totale desaturazione della scala di grigi, talvolta anche nello stesso film (C’eravamo tanto amati, 1974). Prima che il Technicolor diventasse comune sul grande schermo, era la televisione ad avere la prerogativa del colore e della riproduzione fedele. Oggi denotazione e connotazione si alternano, riservando al bianco e nero il ruolo del sogno, del ricordo o del documento ma costruendo anche nell’uso del colore l’identità riconoscibile di una regia. Ogni analisi del concetto di colore comporta dunque una scomposizione, dentro e fuor di metafora, di un fascio di luce unico, attraverso il prisma dello sguardo collettivo. È un’operazione astratta solo nella misura in cui non si riconosce che i piani di realtà, filosofici e antropologici, scientifici e sociali, in cui è inserito il significato dei colori siano indici concreti, vivi e in evoluzione dell’abitare il mondo.