La tecnologia nasce della mente umana e proprio come una figlia, dopo essere stata cresciuta dai genitori, arriva il momento in cui è lei a dover sostenere la madre quando mostra i primi segni di debolezza. Ma come può la tecnologia fisica aiutare qualcosa di immateriale come la mente umana? Ce lo spiega il professor Giuseppe Riva, docente di Psicologia cognitiva ed esperto di tecnologie applicate alle neuroscienze. Il lavoro di Riva si focalizza infatti sull’utilizzo dei progressi tecnici per «migliorare gli stati emotivi del paziente e la sua dimensione cognitiva».
Nei suoi lavori all’Università cattolica di Milano e presso l’Istituto Auxologico Italiano, il professor Riva si serve dell’ausilio della realtà virtuale per aiutare i pazienti a ritrovare il proprio equilibrio emotivo. Una necessità che è esplosa ancora di più con la pandemia e che Riva ha notato a partire dai suoi studenti. «Molti di loro hanno avuto un peggioramento dello stato emotivo e hanno difficoltà a tornare in aula per le lezioni a causa del senso di isolamento sociale e della mancanza di relazioni che hanno provato in questi due anni». Proprio questo ha spinto il professore e il suo team a creare uno strumento di realtà virtuale gratuito chiamato Covid Feel Good. «Ciò che di cui siamo stati privati durante il lockdown è stata soprattutto la relazione con gli ambienti naturali. Per questo abbiamo cercato di ricreare l’immagine di un giardino zen in realtà virtuale per riprodurre una situazione di stabilità emotiva». L’esperienza richiede solo il possesso di uno smartphone e di un visore VR, dura 10 minuti e va ripetuta una volta al giorno per una settimana insieme a un’altra persona che può trovarsi anche a distanza. «I risultati indicano una notevole riduzione di ansia e depressione. Abbiamo avuto un tale successo che la nostra tecnologia è stata tradotta in 14 lingue e ora è la più usata al mondo di questo tipo».
La realtà virtuale può essere uno strumento fondamentale anche per altre patologie psicologiche diffuse soprattutto tra i giovani. «Quando parliamo di disturbi alimentari ci troviamo di fronte da un lato a una percezione falsata del proprio corpo, dall’altra a emozioni negative legate al cibo». Due problematiche per cui la realtà virtuale offre soluzioni molto più efficaci di quelle che potrebbero essere messe in atto in uno spazio fisico. «Al livello emotivo», spiega Riva «Il cibo virtuale ha lo stesso effetto di quello vero. Perciò possiamo praticare un’esposizione controllata e progressiva ai cibi ansiogeni», questo con il notevole vantaggio non solo di poter monitorare costantemente la risposta emotiva del paziente, ma anche di poter avere accesso istantaneo a piatti e scenari diversi, «senza aver bisogno di andare in un ristornate e ingaggiare uno chef». Ma non solo, la realtà virtuale permette anche di far entrare il paziente in un altro corpo. «Possiamo mettere un anoressico in un corpo normale e fargli capire che il suo è solo un disturbo di percezione, perché di fatto anche il corpo che vede guardandosi allo specchio e percepisce come grasso è “virtuale”». Quest’ultima pratica è appena all’inizio e non ci sono dati sufficienti per valutarla, ma i primi risultati sembrano essere incoraggianti.
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L’ultimo campo in cui la psicoterapia di Riva si serve della VR è quello della riabilitazione cognitiva. «Stiamo parlando della possibilità di rallentare la progressione delle malattie neurodegenerative, per le quali non esiste cura, ma anche di aiutare soggetti che hanno perso temporaneamente le capacità motorie a recuperarle». Anche in questo caso ci sono tre vantaggi chiave sulla riabilitazione classica. «Innanzitutto è più divertente e poi permette di misurare la risposta del paziente passo dopo passo». Ma la vera marcia in più è la possibilità di non porre limiti all’immaginazione. «Si potrebbe trasportare qualcuno che ha perso la mobilità a un braccio in un corpo in perfetta forma e a quel punto utilizzare gli schemi motori virtuali funzionanti per stimolare e ricostruire quelli reali danneggiati».
L’applicazione delle tecnologie virtuali alla cura dei problemi mentali è dunque un campo già ricco di risultati e potenzialità da scoprire, che potrebbero beneficiare del crescente sviluppo del Metaverso. Qui però Riva si fa più cauto. «Il Metaverso, a differenza della realtà virtuale, dovrebbe essere la fusione tra il mondo fisico e quello digitale, in cui ciò che faccio nell’uno ha effetti nell’altro, ma non siamo ancora a questo livello». Il limite del Metaverso attuale consiste nel fatto che la trasmissione di emozioni è ancora solo simulata, perché manca un legame diretto tra l’identità digitale e quella reale, cosa che richiederebbe sistemi di controllo molto sofisticati e molto costosi.
Per ora dunque il metaverso è solo una versione molto avanzata del videogioco Second Life, ma questo non vuol dire che non possa portare a enormi progressi nel campo della psicoterapia. «Il mio avatar può essere ciò che voglio, permettendomi si superare i limiti imposti dal mondo fisico e aumentare le possibilità di interazione», spiega Riva. Una prospettiva che non deve mai perdere di vista quello che la tecnologia può fare per aiutarmi nel mondo fisico. «Il nostro cervello è una macchina predittiva che costruisce profezie che si auto avverano. Il metaverso potrebbe funzionare come un potentissimo effetto placebo che sblocchi le mie potenzialità semplicemente facendo sì che io ci creda: ad esempio in Spagna hanno visto che mettendo delle persone con difficoltà di apprendimento nel corpo di Einstein le loro capacità miglioravano sensibilmente».
In un tale oceano di possibilità bisogna però evitare la tentazione di lasciarsi convincere che il mondo digitale sia meglio di quello reale. La componente che rimane fondamentale è quella dell’interazione umana e solo quando il metaverso darà nuovo slancio a questa possibilità potrà definirsi un’innovazione compiuta, mentre le attuali tecnologie digitali tendono all’isolamento. Al contrario «Lo psicoterapeuta è un professionista che opera col linguaggio che è una forma di mediazione. Il metaverso deve dare la possibilità di ampliare le possibili esperienze terapeutiche, farle vivere e renderle trasformative. Quando sarà pianamente sviluppato non parleremo più di reale e virtuale, ma di digitale e fisico».