James Cameron, Steven Spielberg, Damien Chazelle, sono questi i nomi che ricorrono di più nella stagione dei premi inaugurata dalle nomination dei Golden Globes 2023 e che fanno pensare a quanto sia prevedibile Hollywood, a volte. Riesce mai a guardare oltre se stessa? Una risposta interessante la fornisce di solito la categoria dei film internazionali nei diversi premi annuali, quando l’industria statunitense ricambia lo sguardo sul cinema mondiale e scopre cos’altro si può fare, con gli stessi strumenti.
I cinque titoli che nella notte italiana tra il 10 e l’11 gennaio si sono contesi il primo riconoscimento di rilievo dell’anno provengono quindi dalla Corea del Sud, dalla Germania, dal Belgio, dall’Argentina, dall’India. Coprono una vasta, anche se incompleta, area geografica che esclude ancora il Medio Oriente, l’Iran – dove la produzione cinematografica continua anche nella repressione – e l’Africa intera. I temi e i messaggi di questa cinquina assumono tuttavia una portata rappresentativa significativa. Un ritratto eterogeneo del presente.
Nel gioco di specchi un po’ forzato in cui Hollywood illumina solo ciò in cui si riflette, l’Associazione della stampa estera (HFPA) che assegna i Globes sorprende scegliendo tra i film non anglofoni storie molto più forti e politiche di quelle domestiche.
Vince Santiago Mitre con il suo Argentina, 1985, disponibile su Prime Video dopo il passaggio al Lido di Venezia. Una storia circoscritta e irripetibile nel tempo, quella del Paese che processa la dittatura di Videla e della sua giunta militare. Diventa però anche simbolo della necessaria difesa delle strutture della democrazia e colpisce l’attenzione e la coscienza statunitensi nel punto in cui, guardandosi dentro, l’assalto del 2021 a Capitol Hill ha lasciato un trauma ancora difficile da sciogliere e verbalizzare, ma per cui è stata istituita un’apposita commissione di inchiesta.
Park Chan-wook, con il suo thriller romantico Decision to Leave conferma il crescente peso culturale ed economico dell’Oriente nel mercato statunitense, una scia ininterrotta dal 2019, ancor prima del trionfo di Parasite (di Bong Joon-ho). Pochi fortunati l’hanno visto a Cannes, in Italia arriverà a febbraio. Edward Berger affronta il rischio del déja-vu, realizzando a soli tre anni dal magnifico 1917 di Sam Mendes un altro lungometraggio sulla prima guerra mondiale. Senza prevederlo è inghiottito dall’attualità, poiché presenta il manifesto antibellico per eccellenza Niente di nuovo sul fronte occidentale, in una nuova versione tedesca targata Netflix.
Ai margini delle questioni politiche, ma centrato con precisione sulla sensibilità contemporanea emerge Close di Lukas Dhont, in sala da inizio gennaio. Un racconto di formazione che prende forma nel non detto e nel sentimento di inadeguatezza che opprime durante il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, soprattutto quando avviene fuori dai canoni dell’eteronormatività. Già vincitore del Grand Prix di Cannes, arrivava alla vigilia dei Globes da favorito, con lo sguardo tuttavia puntato anche sull’outsider, il titolo indiano che completa la cinquina e costringe a un ripensamento dei canoni “da premio” occidentali: RRR di S. S. Rajamouli.
La rivoluzione di RRR
Roudraṁ Raṇaṁ Rudhiraṁ, questo il titolo esteso in lingua telugu, è un film sull’epica indiana, ne racchiude cioè la tradizione, la cultura e il mito, celebrando l’indipendenza e la lotta all’invasore britannico. Rivoluziona il cinema del subcontinente almeno per due motivi: è il film più costoso mai realizzato in India e l’unico in una lingua indiana diversa dall’hindi a essere mai stato candidato ai Golden Globes e a ricevere l’attenzione internazionale. Ciononostante Netflix, che lo distribuisce in tutto il mondo, ne propone solo versioni doppiate, privando il pubblico di un aspetto identitario fondamentale dell’opera.
Dai violentissimi scontri con animali feroci, riprodotti in digitale, agli immancabili numeri musicali, RRR – che tradotto significa Rabbia, Guerra, Sangue – concentra in tre ore l’intera tradizione cinematografica del Paese, alternando l’alto e il basso, il prodotto commerciale e l’impegno politico, l’ironia scanzonata dell’action movie e la solennità del film storico. L’unica forzatura è l’immaginaria amicizia tra i protagonisti, Alluri Sitarama Raju e Komaram Bheem, due veri eroi nazionali indiani che nella realtà non si incontrarono mai.
Ognuno portò avanti la propria lotta senza conoscere l’altro, ma in RRR le loro figure diventano complementari e inviano un chiaro messaggio. In un mondo cioè in cui ancora, sostituendo la parola Impero con Commonwealth, non tramonta mai il Sole sulla corona inglese, il forte appello di autodeterminazione del popolo indiano, soprattutto dopo la morte della Regina Elisabetta, risuona come un necessario appuntamento con la Storia, contro i legami neocolonialisti ancora in vigore ovunque. Nella sua forma di epica di intrattenimento RRR riesce ad abbattere le barriere linguistiche e culturali e sfondare il muro di indifferenza della stampa di settore. Vince il Golden Globe alla migliore canzone originale, Naatu Naatu, ma è probabile che il suo percorso si fermi. Essere arrivato fin qui significa tuttavia essere presente su ogni testata cinematografica statunitense e, di riflesso, internazionale. Significa aver costretto Hollywood a guardarsi intorno e riconoscere il valore di qualcosa lontanissimo da sé ed è già una vittoria.
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