La sagoma rossa di una mano sporca il viso Aulii Cravalho alla première della sua nuova serie Amazon The Power – Ragazze elettriche. Come in molti prima di lei, l’attrice ventitreenne, celebre per aver dato la voce alla protagonista Disney di Oceania, sceglie di usare la massima visibilità del red carpet per diffondere un messaggio importante. Quella mano disegnata sul volto dalle linee del rossetto è infatti il simbolo del movimento “No More Stolen Sisters”, contro la violenza sulle donne indigene in America.
Le origini hawaiane di Cravalho l’avvicinano anche dal punto di vista personale e identitario al movimento che, tuttavia, nasce e si sviluppa soprattutto in Canada e grazie a questa presa di posizione così netta, da un tappeto rosso importante come quello dell’anteprima newyorchese organizzata da Amazon, ha ottenuto visibilità internazionale.
Già dal 1996, una statistica pubblicata dal governo canadese riconosceva che le donne indigene fra i 25 e i 44 anni avevano una probabilità cinque volte superiore alle altre donne della stessa età di morire in modo violento. La violenza specifica nei confronti delle donne indigene su base razziale, tuttavia, è stata studiata molto tempo dopo.
Nell’ottobre 2004 Amnesty International ha pubblicato il primo report completo sui rapimenti e le uccisioni delle cosiddette Stolen Sisters, le sorelle rubate. Oggi sono più di un migliaio le ragazze e le donne stuprate, uccise e scomparse mentre i loro aggressori sono rimasti impuniti.
Il rosso del sangue, anche se finto, sul volto di Cravalho ricorda e in alcuni casi fa scoprire per la prima volta al pubblico l’esistenza di una tragedia che altrimenti sarebbe rimasta silente e semi-sconosciuta. Attira l’attenzione, come gesto, perché esula dalle convenzioni del tappeto rosso: i sorrisi di circostanza, i bei vestiti, un bel trucco e una bella foto. Non è tuttavia un gesto isolato, poiché da sempre divi, dive e personaggi più o meno celebri hanno usato il red carpet come spazio pubblico in cui manifestare dissenso o lanciare un messaggio.
È citata spesso in questi casi la partecipazione di Jane Fonda agli Oscar 1972. In quell’anno l’attrice, candidata come miglior protagonista, era nel pieno della sua opposizione alla guerra del Vietnam, così decise di presentarsi con un vestito firmato da Yves Saint Laurent, nero per il lutto e di quattro stagioni precedenti, perché con la guerra in corso Fonda non voleva essere così “frivola” da pensare al look.
Far “parlare” gli abiti è un’abitudine frequente. Anche durante i Golden Globes del 2018 tutte le attrici avevano deciso di indossare abiti neri, in segno di protesta contro Harvey Weinstein e in corrispondenza con la diffusione del movimento #MeToo.
Gli abiti sono spesso dichiarazioni a sé, una rivendicazione identitaria. È quel che accade con lssa Rae e Viola Davis, due star afroamericane della tv e del cinema, che per la sfilata sui tappeti rossi di solito scelgono di indossare solo capi firmati da designer neri emergenti, per dar loro visibilità e supporto.
Altre volte il messaggio che si vuole trasmettere è incarnato da diverse persone, invitate dagli artisti a calcare il red carpet insieme, come è successo nel 2016 quando Beyoncé ha portato con sé sul carpet le madri dei ragazzi neri uccisi per strada, i primissimi da cui è nato il movimento Black Lives Matter, Eric Garner, Trayvon Martin, Michael “Mike” Brown, Jr. e anche Oscar Grant. O ancora prima nel 2010, quando Lady Gaga si fece accompagnare agli MTV Video Music Awards da quattro militari (due uomini e due donne) danneggiati nella loro carriera e nella loro vita dalla legge Don’t Ask, Don’t Tell, a causa della quale i soldati statunitensi non potevano rivelare il loro orientamento sessuale e viverlo in libertà. L’intervento di Lady Gaga ebbe enorme influenza sull’opinione pubblica, facilitando l’abolizione dell’atto alcuni mesi dopo.
Negli anni e da diversi red carpet, inoltre, sono arrivate esplicite dichiarazioni politiche, soprattutto contro il sistema statunitense e contro Donald Trump dal 2016 in poi, anno della sua elezione a Presidente degli Stati Uniti. È il caso di Alexandria Ocasio-Cortez e del suo iconico vestito bianco con la scritta rossa “Tax the Rich”, indossato al Met Gala del 2021 e di Jocelyn Towne, che nel 2017 si espose in modo diretto contro il Muslim Ban di Trump. Il tappeto rosso in quell’occasione era dei Golden Globes e accanto a lei il marito e collega attore Simon Helberg reggeva un cartoncino, proprio come a una manifestazione, recante la scritta “Refugees Welcome”.
Sulla valenza effettiva dei messaggi lanciati dal tappeto rosso, in equilibrio tra un attivismo di facciata e il reale impegno delle star, c’è ancora da discutere. Alcune cause, tuttavia, hanno bisogno di tutta l’attenzione e tutto l’interesse possibile da parte della società civile. Anche una mano stampata in volto con il rossetto, se serve a capire che è necessario agire e non restare indifferenti.
Della rubrica Effetto Cinema leggi anche: Il grande cinema sul piccolo schermo