Debutta il 10 maggio su Netflix, eppure la docu-serie di Netflix Cleopatra ha già attirato numerose critiche sul web, fino alla tentata causa legale dell’avvocato Mahmoud al-Semary contro la piattaforma streaming, a causa di un particolare: la pelle nera della celebre regina, interpretata dall’attrice britannica Adele James.
Solo poco tempo prima in una situazione simile, ma non del tutto sovrapponibile, si era ritrovata anche la Walt Disney Company, a causa della scelta di dare alla Sirenetta Ariel (in uscita a fine maggio al cinema) il volto dell’attrice e cantante afroamericana Halle Bailey.
Nel caso di un personaggio di fantasia, come una sirena, il problema non dovrebbe nemmeno porsi: può avere qualsiasi volto e qualsiasi fattezza, quindi perché non pelle nera?
Più delicato sembra essere il discorso che riguarda la rappresentazione di personaggi storici, a cui il pubblico perdona molto meno la mancata verosimiglianza. È qui che si rende necessario un passo indietro per capire che, forse, ciò che turba davvero il pubblico è la scoperta dei propri bias cognitivi (o pregiudizi).
La Cleopatra più famosa della storia del cinema (Joseph L. Mankiewicz, 1963), infatti, ha la pelle diafana e gli occhi viola di Liz Taylor e non rispecchia certo l’identità e l’aspetto di una regina dell’antico Egitto.
È il cosiddetto white-washing, una consuetudine che nel tempo a Hollywood si è trasformata in regola e che solo negli ultimi anni si è ridotta fino a sparire quasi del tutto. Non è stato un percorso semplice o facile da destrutturare, poiché è partito dai margini, dalle minoranze sottorappresentate che dagli anni Sessanta in poi hanno fatto pressione sull’opinione pubblica.
Oggi i casi di white-washing che non creano scalpore sono quelli che non si notano nel complesso dell’opera o che richiedono un adattamento della sceneggiatura, come nel caso di Brad Pitt in Bullet Train (2022). Per cucire su di lui il ruolo principale è stato riscritto il protagonista, un uomo giapponese nel romanzo originale da cui è tratto il film. In passato, non troppi anni fa, invece i tentativi di white-washing erano molto più maldestri e dissonanti, come nel caso di Angelina Jolie con una parrucca riccia e le lenti a contatto scure in A Mighty Heart (2007), per somigliare alla reale protagonista della storia, una donna afro-cubana.
Procedendo ancora indietro nel tempo, negli anni Sessanta alcune pratiche di white-washing rasentavano la parodia razzista, soprattutto nei confronti delle popolazioni asiatiche, come nel caso di Mickey Rooney nel ruolo di Mr. Yunioshi in Colazione da Tiffany (Blake Edwards, 1961) o Marlon Brando con il trucco prostetico in La casa da tè alla luna d’agosto (Daniel Mann, 1956). Qualcosa di molto simile alla blackface, una costante del primo cinema Hollywoodiano e di qualsiasi rappresentazione dell’Otello di Shakespeare, ossia la faccia nera dipinta degli attori bianchi.
Non si tratta solo di una pratica offensiva ma è anche una dichiarazione più sottile e più insidiosa. White-washing e blackface affermano che un solo gruppo sociale (i bianchi) è in grado di rappresentare tutti gli altri o meglio si arroga il diritto di farlo, dal suo unico punto di vista. E lo fa togliendo voce e corpi alle minoranze già sottorappresentate: se Ben Affleck scrive il film sulla vicenda di Argo perché non dare il ruolo a un vero attore messicano? Se Disney vuole trasformare il videogioco Prince of Persia in un film, perché sceglie Jake Gyllenhaal e non un attore iraniano?
La risposta è banale, perché all’interno del sistema Ben Affleck e Jake Gyllenhaal sono più conosciuti e vendono di più. O almeno era così. Adesso un white-washing così esplicito danneggia soltanto l’opinione sul film e il risultato al botteghino.
Il caso della regina Cleopatra di Netflix, tuttavia, si trova all’estremo opposto del fenomeno e ne è una conseguenza. La crescente attenzione del pubblico ha portato infatti i produttori, registi e sceneggiatori a diversificare il più possibile i ruoli attraverso il cosiddetto blind casting, l’assegnazione di ruoli senza specificazione etnica. Si tratta spesso di personaggi secondari, delineati solo in superficie, senza un vero approfondimento psicologico o culturale. Quando il blind casting sperimenta su personaggi centrali entra nell’ambito meno neutrale della politica della rappresentazione, perché sceglie in modo arbitrario di mettere una minoranza sottorappresentata in una posizione di potere.
A fare la differenza fra la Cleopatra bianca di Liz Taylor e quella nera di Netflix, quindi, non è la fedeltà alla realtà, ma la visione politica e ideologica che vi è dietro. Liz Taylor era simbolo di una prevaricazione, Adele James diventa simbolo di una rivendicazione, di una risposta che non esisterebbe se prima non ci fossero stati decenni di white-washing.
La richiesta di questo tipo di produzioni è semplice: se dagli anni Sessanta in poi ammirare la Cleopatra bianca di Liz Taylor non richiedeva un grande sforzo nella sospensione dell’incredulità (ossia il patto fra la storia e lo spettatore), non dovrebbe creare alcun problema oggi guardare una Cleopatra nera. È il precedente che crea il caso.
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