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Esclusiva

Maggio 12 2023.
 
Ultimo aggiornamento: Maggio 15 2023
Così abbiamo scalato “Le otto montagne”

Un film «complesso e unico» nel panorama produttivo italiano, raccontato da Rocco Messere di Wildside e dallo scrittore Paolo Cognetti

L’aria rarefatta e la fisicità della montagna, legno, pietra e neve: leggerezza e materia sono i due poli della percezione dentro cui si muove il film Le otto montagne, di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti. Un film stra-ordinario perché fuori dalle logiche produttive consolidate in Italia, un’opera d’autore che inizia il suo percorso a Cannes 2022 (con la vittoria del Premio della giuria) e prosegue fino ai quattro David di Donatello dello scorso 10 maggio, tra cui il riconoscimento a miglior film. Tra i due traguardi, quasi sei milioni di euro di incassi, mesi interi di programmazione nelle sale e un crescente successo negli Stati Uniti nelle ultime settimane.

«Il rischio era fare un film molto complesso e anche unico, perché no, poiché credo che in Italia nessuno abbia fatto quello che abbiamo fatto noi, portare attori, bambini su un ghiacciaio oppure girare le scene sui picchi delle montagne non solo con i droni, ma con una troupe e una macchina da presa che seguiva l’attore in condizioni impervie e pericolose», afferma a Zeta Rocco Messere, organizzatore generale del film per la produzione italiana Wildside. Messere si definisce braccio operativo sul set, a capo di quella componente realizzativa che va dalla gestione del bugdget agli spostamenti della troupe e degli attori.

Girato in alta quota, durante il Covid, tra la Valle d’Aosta e il Nepal, Le otto montagne ha richiesto uno sforzo fisico particolare alla propria troupe, già solo per raggiungere le location: «In Nepal siamo arrivati a 4000 metri, siamo partiti da Kathmandu e siamo arrivati alla montagna del Nar (Nar Phur Valley, ndr). Lì abbiamo camminato per nove ore perché le location erano raggiungibili solo a piedi. In Italia, a Brusson, ci si muoveva sui pick-up o con l’elicottero, per trasportare materiali e troupe. Avevamo dei piani alternativi per raggiungere il set per non doverci fermare mai e siamo riusciti a non fermarci mai. Una volta che era prevista molta neve e nebbia, l’elicottero non poteva decollare e abbiamo dovuto usare le autoslitte. Sembravo Churchill che andava a salvare le truppe inglesi a Dunkirk!». Un aneddoto che permette anche di immaginare le dimensioni della troupe coinvolta, almeno cinquanta persone soltanto sul set alpino.

L’idea di non ricostruire la Barma Drola nel reparto scenografico e di non usare il greenscreen per gli effetti speciali è stata dettata da una precisa scelta di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, afferma Messere: «C’era una particolare ricerca di veridicità da parte dei registi, quella di voler sentire la fatica, il respiro che cambia, i movimenti che cambiano. È tutto più lento a una certa quota e tutto questo credo sia stato un valore aggiunto ineguagliabile. Lo senti che c’è una partecipazione fisica».

Della stessa opinione è Paolo Cognetti, autore del romanzo da cui è tratto il film e che, insieme a Van Groeningen e Vandermeesrch, si è occupato della stesura dei dialoghi nella sceneggiatura. Il cinema offre qualcosa in più, afferma, «per quanto uno scrittore ambisca sempre a fare tutto con le parole e se non credesse che questo fosse possibile potrebbe cambiare mestiere. Certo che vedere i corpi, i volti, le montagne, la pietra, il legno, la concretezza che c’è nel film, è una grande ricchezza».

Concretezza che si realizza nel rapporto tra l’uomo e la montagna, centrale in Le otto montagne, nel rumore dei passi lenti e del respiro pesante in cima, che costringe a diventare cosciente del proprio corpo anche da spettatore, o nella luce che abbaglia tra le vette e nel freddo che diventa visibile, percepibile sulla propria pelle. «Era importante capire il luogo», riprende Rocco Messere. «Capire il motivo per cui era necessario stare in cima e non più in basso, perché solo così potevi trovarti di fronte quel paradiso, quell’estraniamento totale» che appartiene in modi diversi a tutti i personaggi. Appartiene a Bruno (Alessandro Borghi) che affonda le sue radici ad alta quota, escludendo dalla sua vita tutto il resto, a Pietro (Luca Marinelli) che si perde nel mondo per poi tornare ogni anno attratto come un magnete dal suo Bruno e alla sua montagna, due luoghi del cuore. Infine appartiene anche a Giovanni (Filippo Timi), l’anello che li ricongiunge nel momento in cui credevano di essersi persi.

Un’amicizia, quella dei due protagonisti, che riflette il legame tra i due interpreti e il senso di comunità e famiglia creatosi sul set, al punto da trasformare un film già unico nel suo genere come Le otto montagne, in un film d’amore, puro e profondo, più vero possibile.

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