Chi è Filippo Turetta? «Un vile. La sua non è cultura patriarcale, ma maschilista». Agnese Scappini, psicologa sociale e terapeuta di coppia, non ha dubbi. «Filippo e Giulia fanno clamore perché sono prototipi di giovani del mondo in cui viviamo». I loro comportamenti sono quindi inquadrabili all’interno di canoni caratteriali ben identificati.
Qual è secondo lei l’identità del reo confesso Turetta?
«Il profilo narcisistico di personalità di Filippo si poggia su un riferimento familiare che non vede il ragazzo. I genitori lo hanno per prima cosa difeso. Se ci facciamo caso, la madre di Turetta era assente».
Perché questo è importante secondo lei?
«La scarsa presenza materna è un dettaglio non trascurabile all’interno del percorso di crescita infantile e adolescenziale maschile. Tutto ciò che sappiamo lo impariamo innanzitutto nel contesto relazionale con entrambi i genitori. Il linguaggio nasce quando il bambino si sperimenta come essere diverso dalla mamma, parla per farsi capire. Per molto rimaniamo dipendenti dalla figura di riferimento. Ciò che in Filippo manca è il non identificarsi nell’altro, inteso come figura femminile, che diventa di sua proprietà. Non credo che il suo comportamento sia un prodotto del patriarcato in sé, lui non replica i comportamenti del padre che picchia la madre».
Allora chi è Giulia?
«La definirei figlia del patriarcato, cioè di quel femminile che si realizza nell’accudimento dell’altro, nel farlo stare bene». Una «generosità psicologica», così definita dalla dottoressa Scappini, che l’ha portata a pensare di poter salvare Turetta. Anche qui entra in gioco la storia familiare di Giulia: «La perdita della madre ha reso possibile una manipolazione così forte da parte di Filippo», riflettendosi sul suo comportamento, «più materno che femminile». Pensava infatti di poter salvare l’ex fidanzato, che minacciava di uccidersi.
Come sono Filippo e Giulia come coppia?
«Li definirei simbiotici. Lui ha un io ipertrofico, lei per manipolazione o attitudine sente di avere sulle spalle il benessere dell’altro. Giulia dà troppo spazio a Filippo, Filippo attribuisce a Giulia un ruolo che non dovrebbe essere il suo. È come il bambino che dipende dalla madre». L’incapacità della ragazza di riconoscere il pericolo è data quindi dal camuffamento di Filippo: «I prodotti degli assassini sembrano sempre perfetti. Nell’immagine il narcisista è inappuntabile: un iper-adattato, un soggetto che vuole dare di sé un’immagine esemplare. La sua viltà risiede nel nascondersi dietro messaggi, minacce e falsità per non farsi lasciare da Giulia. Nonostante il suo background, è stata forte a lasciarlo: ha avuto il coraggio di separarsi avendo percepito la negatività della situazione. Ma Filippo ha sfruttato a suo vantaggio la fragilità della ragazza».
Dai primi giorni di settembre a quello del delitto, Turetta si era confrontato per cinque volte con uno psicoterapeuta. Perché non ha funzionato?
«Per dire che sia stata fallimentare, la cura deve durare almeno sei mesi. Le prime avvisaglie del funzionamento si vedono quando è fatta con continuità. Filippo è il tipico ragazzo non trattabile, non guaribile. Se va in terapia, lo fa in maniera strategica: è perché vuole tenersi la compagna. L’attribuzione della semi-infermità mentale potrebbe evitargli l’ergastolo. Ci sono tutte le condizioni per averlo: la premeditazione è un’aggravante. Nel momento in cui si dovesse affermare che non era del tutto in sé, ci sarebbe uno ‘sconto’ e si arriverebbe a 30 anni».
Sarebbe d’accordo, per quello che sappiamo oggi, con il riconoscimento della semi-infermità mentale?
«Pensare a un’infermità di Filippo non mi piace, mi disturba. Va a toccare chi soffre davvero di una patologia borderline antisociale. Mi sembra assurdo che uno che ha fatto la sua vita da ‘monaco’ diventi pazzo in un momento. Ha continuato a scappare per quattro giorni, si tratterebbe di un raptus troppo lungo».
Servirà il carcere come pena rieducativa e riabilitativa?
«Il carcere di per sé può essere riabilitativo, ma Turetta non mi dà molta fiducia, perché tutto ciò che ha fatto e che farà sarà sempre strategico per ottenere ciò che gli serve. È stato sgamato in tutti i modi, l’unica cosa che può dire è “mi dispiace di averlo fatto, sono uscito di testa”. Nel momento in cui si è compiuto un fatto del genere e si pensino delle strategie attenuanti, cercando di passare per vittima, si crea del pietismo manipolativo». È questa stessa tecnica ad aver mosso la psiche di Filippo in ogni sua mossa: dai primi allarmanti messaggi fino all’omicidio e alla fuga. «Quando lo si vede, si ha la stessa impressione: il suo senso di colpa non è autentico, ma vicario. Si tratta di una dinamica passiva-aggressiva, che colpisce mentre l’altra persona è mossa da pietà».
Come suggerisce di comportarsi ad amici e famigliari davanti a rapporti che denuncino malformazioni, patologie analoghe a quello di Giulia e Filippo?
«La regola che do ai miei giovani pazienti in situazioni analoghe, davanti a minacce di suicidio, è quella di bloccare l’altra persona sul telefono. Da parte dei ragazzi c’è più virulenza, ma nel processo molti segnali sono speculari. Tanto se l’altra persona si vuole ammazzare, non è salvabile da te. Le situazioni ad alto rischio di conflittualità non devono essere affrontate da soli, è bene sempre parlarne con la famiglia e denunciare se necessario».
Dottoressa, questo è un caso che rimanda ad un tema al centro del dibattito pubblico, come dimostrato dalle manifestazioni di piazza: la violenza contro le donne. Dal punto di vista psicologico, come intervenire?
“Per sensibilizzare le nuove generazioni l’educazione sentimentale deve partire dalle famiglie, prendendo in considerazione come la donna sia diventata una figura forte anche sul piano economico. I ruoli del maschio e della femmina nella coppia sono relativi: è su tale questione che bisogna lavorare tanto. Uscite dal pensiero unico. L’ideale sociale è troppo generalizzato, riduzionistico. Se pensiamo di risolvere un problema così complesso liquidandolo alla figura dell’uomo, andiamo fuori strada. Noi li amiamo questi uomini che ci ammazzano. Bisogna andare a fondo, scavando nelle dinamiche dei rapporti e non sintetizzando tutto nella logica del patriarcato».