Esclusiva

Dicembre 24 2023
Bucciarelli a Zeta: “Ciò che la guerra lascia indietro”

Il fotogiornalista, vincitore del World Press Photo, Fabio Bucciarelli racconta a Zeta i suoi progetti su ciò che la guerra lascia indietro

Un raggio di luce illumina una cameretta di ospedale a Leopoli, in Ucraina. Sofia ha 11 anni ed è seduta sul letto in attesa della chemioterapia, mentre nella sua città si combatte l’invasione russa. La sofferenza e la fragilità sono al centro dei lavori di documentazione di Fabio Bucciarelli. Il mondo, attraverso la sua fotocamera, gli appare come una scala di grigi, che spesso sceglie di utilizzare anche per le sue foto. 

Fotogiornalista e vincitore per due volte del World Press Photo, Fabio studia ingegneria delle telecomunicazioni al Politecnico di Torino e si specializza nello studio delle immagini digitali. Inizia la sua carriera da freelance documentando il terremoto del 2009 in Abruzzo per poi spostarsi nei territori di conflitto in Merio Oriente.

Durante la lectio magistralis a Roma, organizzata da Canon Italia e Sabatini Fotografia, ha mostrato i suoi progetti sulle zone di guerra. Ammirazione e stupore appaiono sui volti del pubblico che lo ascolta mentre racconta storie di umanità. Zeta lo ha intervistato alla fine dell’incontro, per parlare delle realtà difficili che ha incontrato e del suo sguardo d’autore. 

Lei si è occupato di tante storie difficili. Quanto porta con sé delle storie che racconta? 

«Le storie che racconto diventano parte di me: il conflitto libico è la mia gamba sinistra, quello siriano la mia gamba destra, l’Ucraina il mio braccio destro. Per anni ho cercato di dare un senso a tutto il dolore che fotografavo nel mondo, fino a quando ho capito che la migliore risposta era l’accettazione. In questo modo le storie sono diventate parte di me. Io sono composto dalle mie esperienze, che mi hanno formato e modellato lungo gli anni. Ogni storia che ho documentato è diventata parte integrante della mia persona».

C’è un’immagine che ha avuto difficoltà a scattare dal punto di vista emotivo?

«In realtà, a coinvolgermi più o meno emotivamente non sono tanto le singole immagini quanto i lavori e i racconti nel loro insieme. Nessuno dei progetti che ho affrontato è mai stato facile. Mi viene in mente l’esperienza in Cisgiordania, ma anche i lavori in Ucraina nel 2023, lontano dal fronte, che includevano storie sugli ultimi, sui bambini oncologici e sui prigionieri di guerra. Anche i progetti precedenti, come il conflitto libico o la gestione del Covid in Italia, sono stati emotivamente impegnativi. Ci sono poi storie che possono toccarti più profondamente, magari perché le hai realizzate in un momento particolare della tua vita. Attualmente ho una figlia di 2 anni e quando sono andato in Ucraina, nel marzo scorso, aveva poco più di un anno. Lavorare con i bambini oncologici in una situazione di conflitto è stato difficile a livello di trasporto empatico. Quel progetto in particolare ha riacceso anche un vissuto particolare: da piccolo ho perso mio fratello a causa della leucemia, e sono storie che ho sentito e ho vissuto. Uscire da queste esperienze dopo aver trascorso ore con quei bambini è un processo che mi ha reso molto più consapevole e complesso di quanto fossi prima».

Ucraina e Palestina sono i suoi ultimi progetti. Il suo sguardo da fotogiornalista è cambiato nel racconto di questi due conflitti? Se si, come? 

«Credo che il mio sguardo fotografico si sia evoluto e abbia subito un cambiamento nel senso che è maturato nel corso del tempo. Le immagini del 2012 e del 2013 riguardanti la Siria e la Libia erano principalmente fotogiornalistiche: cercavano di fornire una risposta a ciò che stava accadendo, di presentare prove e immagini che spiegassero la situazione in quella zona di guerra. Col passare degli anni, mi sono reso conto che le risposte non sono sempre immediate e a volte semplicemente non ci sono. Ho iniziato quindi a scattare immagini che sollevassero più domande che risposte. Sono scatti che si distanziano dall’evento di un conflitto o da una trincea e scrutano più a fondo. Nel 2023 sono andato dietro le linee, non sul fronte, per documentare ciò che la guerra lascia indietro: le storie e la realtà degli ultimi, dei dimenticati. In questo caso la mia fotografia si è rivolta a loro».

Lei sceglie di utilizzare, soprattutto nell’ultimo periodo, il bianco e nero nelle foto. C’è un motivo in particolare?

«Ogni volta che c’è un discorso estetico, come può essere la scelta di un bianco e nero piuttosto che di un colore, questo è supportato da un discorso contenutistico. Quindi c’è sempre una ragione, un’estetica senza contenuto è un’estetica vuota. Nel caso del mio ultimo lavoro in Palestina e Israele, ho realizzato un editoriale per La Stampa con Domenico Chirico dove univo il bianco e il nero al colore: il primo legato alla situazione palestinese, il secondo a quella israeliana. Perché? Perché con il colore, che è più reale, contingente e moderno ho raccontato quello che è successo dopo il 7 Ottobre in Israele. L’utilizzo del bianco e nero legato a una situazione di occupazione è stato scelto per sottolineare che quell’occupazione non era contingente, ma andava avanti da decine di anni».

Abbiamo visto che l’Intelligenza Artificiale può ormai creare immagini. Come pensa che cambierà il suo lavoro?

«Non ha nulla a che vedere con il mio lavoro. Non lo cambierà minimamente. Come hai detto bene l’Intelligenza Artificiale crea immagini, non crea fotografie. Non è un reporter che va sul campo per documentare una realtà. Il rischio potrà forse essere basato sulla credibilità che la fotografia ha di per sé. L’intelligenza artificiale è ormai tra di noi, e quello che possiamo fare è tutelarci e avere gli strumenti per sapere quello che è vero e quello che è creato. Uno dei miei mentori, Mimmo Candito, diceva che il giornalismo è la ricerca della verità, e questa verità in zone di conflitto è ancora più complicata da scovare, ma saranno sicuramente i reporter a poterla trovare e non le immagini create da un computer».