Esclusiva

Gennaio 3 2024.
 
Ultimo aggiornamento: Gennaio 11 2024
Hong Kong, la lotta per la libertà contro la repressione cinese

Padre Franco Mella, missionario in Asia dal ’74, e Tom Grundy, direttore dell’Hong Kong Free Press, ci raccontano il valore della libertà

Si chiama Sham Chun il fiume che divide la Cina da Hong Kong. Una frontiera naturale per segnare il principio politico del “Un Paese, due sistemi”, formula utilizzata da Pechino quando, nel 1997, l’ex colonia britannica è diventata cinese con lo status di regione amministrativa speciale. Una espressione dal significato chiaro, Hong Kong appartiene alla Cina, ma all’interno del Dragone può esserci un diverso ordinamento economico e istituzionale. Oggi ha ancora senso questa formula?

La situazione politica di Hong Kong

Sono passati ventisei anni dall’Handover of Hong Kong, il ritorno del territorio dal Regno Unito alla Cina. Trentanove dalla stretta di mano tra Margaret Tharcher, primo ministro britannico, e Zhao Ziyang, premier asiatico, che concludeva 150 anni di dominio anglosassone e fissava la sovranità cinese all’1 luglio 1997.

Un quarto di secolo in cui si sono alternati momenti di pace a riforme politico-autoritarie, capaci di far scendere in piazza migliaia di persone. In particolare, il 2014 e il 2019 sono stati gli anni in cui proteste, manifestazioni, arresti e scontri con il regime autoritario cinese hanno avuto cadenza quotidiana.

Nel primo caso i dissidenti diedero vita alla rivoluzione degli ombrelli, chiamata così perché era questo lo strumento utilizzato dai manifestanti per proteggersi da lacrimogeni e telecamere. Una rivolta iniziata per far ritirare un emendamento parte della legge sulle estradizioni e continuata contro le ingerenze del regime comunista nell’autonomia di Hong Kong. Uguali le motivazioni che cinque anni dopo hanno fatto scendere in piazza 240mila persone. La legge sull’estradizione, se approvata, avrebbe permesso che i cittadini fossero estradati in Cina e processati dai tribunali controllati dal Partito comunista cinese (Pcc). Per un po’ la protesta blocca i piani delle autorità di Hong Kong.

Ci ha pensato il Covid, però, a ricomporli. È alla fine di giugno 2020, in piena emergenza pandemica, che viene approvata e inserita nella Legge Fondamentale, regolatrice dei rapporti tra Pechino e Hong Kong, la legge sulla sicurezza nazionale. Composta da 66 articoli, reprime ogni tipo di dissenso e prevede il carcere a vita per reati come “secessione”, “sovversione”, “terrorismo” e “collusione con forze straniere”. Una legge considerata dall’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite pericolosa perché scritta in maniera troppo vaga e lascia spazio a “un’interpretazione e un’applicazione discriminatoria o arbitraria che potrebbe compromettere la protezione dei diritti umani”.

Storie di uomini liberi

«In diecimila sono stati arrestati e duemila fratelli e sorelle sono in prigione attualmente senza aver commesso nessun crimine. Per aver cercato di puntare sulla democrazia» spiega Padre Franco Mella, missionario del Pontificio istituto missioni estere (Pime) che vive tra Cina e Hong Kong dal 1974, quando presidente della Repubblica popolare era ancora Mao Zedong. È partito da ragazzo, per ideali e con la volontà di aiutare i bisognosi. Debutta fondando una scuola serale per la gente delle barche, la popolazione povera che vive sull’imbarcazione che di giorno utilizza per lavorare. «Andavamo in fabbrica a lavorare, la sera insegnavamo a leggere e scrivere a questi ragazzi analfabeti. Per tre anni lo abbiamo fatto nella Chiesa della zona. Poi ci hanno detto che non potevano più darci i locali», racconta il padre «perché voi non insegnate solo a leggere, a scrivere, insegnate anche a lottare per la casa». La storia si conclude nel 1989 quando alla gente delle barche vengono date le case popolari.

Una vita in lotta per i più deboli. Oggi resta uno dei pochi con il coraggio di far sentire la sua voce. Una vera opposizione infatti non esiste più.  Su 90 seggi, l’assemblea parlamentare monocamerale di Hong Kong, il LegCo, ne conta 85 legati al regime. Di questi 90, venti sono eletti a suffragio, gli altri nominati da enti politici. Esempio è Demosisto, principale movimento pro-democrazia e animatore delle rivolte, fondato tra gli altri da Joshua Wong, volto della rivoluzione degli ombrelli, e animato dalla fascia più giovane della società. Si è sciolto dopo l’approvazione della legge sulla sicurezza nazionale. Oppure quanto accaduto al Partito Democratico, formazione pro-democrazia vincitrice delle elezioni libere del 2019, che non ha potuto concorrere alle ultime.

Questo, però, non significa che sia finita la voglia di lottare. È cambiato il modo, dopo i diecimila arresti del 2019 e la pandemia. «Nonostante una grande propaganda siamo passati dalle ultime elezioni dei consigli di zona col 71,2% a quest’ultime col 27,4%. Insomma, una bella sberla», ci spiega Padre Mella riferendosi alle elezioni imposte da Pechino nelle quali era permesso di candidarsi solamente ai “patrioti”, ossia a chi garantiva fedeltà assoluta al governo cinese.

Nonostante la partecipazione alle proteste del 2014 e 2019 sembra non esserci più, c’è chi trova il coraggio di scendere in piazza, organizzando sit-in sotto le carceri per profughi e dissidenti politici imprigionati. Freedom now, Freedom for all, Freedom Forever è il canto che viene intonato sotto le case circondariali. Eppure, padre Mella ammette «Le proteste sono effettive solo se la stampa ne parla». Di chi manifesta oggi, i grandi giornali invece non parlano più. O per convenienza o perché impossibilitati. Il New York Times ha cambiato sede, da Hong Kong si è trasferito a Seul. L’Apple Daily, principale tabloid pro-democrazia della regione, è stato chiuso nel 2021. Cinquecento agenti di polizia sono entrati nella redazione ispezionando computer e documenti. Il direttore, Ryan Law portato via ammanettato. In isolamento carcerario da tre anni Jimmy Lai, editore dell’Apple Daily, in questi giorni a processo. Non avrà diritto a un avvocato difensore, né a una giuria popolare.

Esistono delle eccezioni. L’Hong Kong Free Press è tra le poche testate libere rimaste. «Sono orgoglioso che il nostro team abbia scelto di rimanere con gli abitanti di Hong Kong per riportare ciò che succede sul campo, occupando lo spazio rimanente nella gabbia», ci racconta Tom Grundy, direttore editoriale della testata. Riguardo la libertà di stampa afferma: «Con giornalisti arrestati, redazioni perquisite, emittenti chiuse e più di 50 gruppi della società civile scomparsi, non c’è dubbio che la libertà di stampa abbia subito un duro colpo negli ultimi anni. La città è precipitata negli indici internazionali e siamo costantemente costretti a navigare tra linee rosse mutevoli, vaghe e poco chiare».

Le storie dei giornali chiusi e degli editori perseguitati fanno rumore perché rappresentano un simbolo di libertà, ma sono simili a quelle di tanti altri sindacalisti. Mella sottolinea l’ipocrisia del Partito comunista: «Esiste una branca chiamata Fronte Unito all’interno del Pcc che collega il partito a tutti i gruppi che non sono interni ma che si danno da fare per la gente, per i poveri, per gli operai e per i contadini. Allora io mi chiedo, perché mettano in prigione dei sindacalisti che si sono dati da fare per gli operai molto più dei loro sindacati che, invece, sono alleati con i grandi capitalisti di Hong Kong?».

Un ruolo importante per la difesa della libertà a Hong Kong lo ha proprio la Chiesa. Nei momenti di tensione ha accolto e nascosto tanti giovani ricercati dalla polizia. Nelle carceri diversi leader, tramite il cardinale Joseph Zen, hanno ricevuto il battesimo. Ora le comunità cattoliche continuano a scendere in piazza. «Se non siamo noi a parlare o gli stranieri, chi può farlo?», chiede padre Mella. Prima di salutarlo, domandiamo al missionario se è intimorito dalla possibilità che possa accadere qualcosa di brutto a lui o alla sua comunità. Ci risponde con il verso di un poeta iraniano: se tu accetti l’incertezza del domani, non avrai più paura.