«L’area della Striscia di Gaza, a differenza delle altre quattro guerre avvenute lì, è totalmente inaccessibile per i giornalisti internazionali», spiega Stefania Battistini, inviata del Tg1, tornata da qualche giorno in Italia dopo essere stata in Israele già diverse volte. La prima quattro giorni dopo l’inizio delle ostilità.
Nella Striscia di Gaza fare informazione è sempre più complicato sia in termini di rischi per la propria vita che per possibilità di raccontare quello che accade. Dal 7 ottobre, giorno in cui Hamas ha attaccato lo Stato di Israele, nella Striscia sono morti in 81 tra giornalisti e operatori. Di questi, 74 sono palestinesi, quattro israeliani e tre libanesi. Se per i reporter locali c’è un evidente e grave problema di sicurezza sul campo, a quelli stranieri non è permesso fare il loro lavoro.
Secondo l’organizzazione non governativa (Ong) statunitense Committee to protect journalists (Cpj) e quella svizzera Press Emblem Campaign, la quale gode di uno status consultivo speciale presso le Nazioni Unite, non era mai successo che in un lasso di tempo così breve ci fosse un numero così elevato di vittime relative al mondo della stampa. Durante la Seconda Guerra Mondiale, in sei anni di conflitto, sono morti 69 reporter mentre in quella in Iraq, dopo tre anni, ne sono morti 71.
L’unico modo per vedere con i propri occhi cosa sta accadendo a Gaza è essere accompagnati dall’esercito israeliano (Idf). I giornalisti vengono spesso affiancati da ribelli e militari nelle zone di guerra. Un aspetto che però può togliere obiettività ai reportage che vengono scritti sono i luoghi che vengono mostrati loro e le tempistiche in cui questo accade. «A differenza di quello che succede in Ucraina dove l’esercito, quando ti porta, ti porta sul campo di battaglia, noi abbiamo avuto accesso soltanto alle aree più o meno sicure», specifica Battistini.
«Ti portano dentro qualche ora, al massimo tre, e lo fanno molto raramente. Mai in prima linea», spiega Fausto Biloslavo, inviato da 40 anni e firma de Il Giornale e Mediaset.
Lui, invece, ha trascorso tra la fine di ottobre e novembre un mese in Israele e nei territori palestinesi, dal fronte nord ai kibbutz a ridosso del confine, passando per la Cisgiordania. Vista la sua esperienza nella zona, spiega: «Il più grande problema del conflitto, parlando di informazione, è che ambo le parti, in particolare gli israeliani, non vogliono testimoni a Gaza. O meglio, Hamas vorrebbe testimoni che raccontino solo dei bombardamenti israeliani mentre gli israeliani forniscono quotidianamente ai giornalisti informazioni, video, foto sulle attività di guerra dentro la Striscia. Il giornalismo, però, non funziona così». Inoltre, quando si entra guidati dall’Idf, non si ha la possibilità di intervistare i palestinesi che vivono lì. «In questo lungo accordo di svariate pagine che abbiamo sottoscritto per accedere c’è anche una clausola che prevede di intervistare solamente le persone segnalate dall’Idf», specificano entrambi.
La tendenza delle fazioni tra loro ostili è quella di sostituirsi all’informazione offrendo materiale confezionato: da un lato le immagini delle operazioni militari dell’Idf, dall’altro i video dei miliziani di Hamas con protagonisti ostaggi o combattimenti. «Il risultato – dice Biloslavo – è che si vede solo una parte della guerra filtrata da chi combatte, utile solo per la propaganda».
Se nel resto di Israele è possibile muoversi e documentare quello che accade, anche dove si continua a combattere – come nel fronte Nord o a Jenin, in Cisgiordania – nella Striscia di Gaza è impossibile. «Questo è un grande problema perché è vero che gli scontri ci sono anche sul fronte libanese, siriano e nel resto del Paese, ma l’epicentro del conflitto è là», continua Biloslavo. «A Gaza ti avvicini fino all’ex barriera. Se si va a Sderot, che è una cittadina limitrofa completamente evacuata, o si sale sulle collinette lì vicino si vedono i fumi delle esplosioni e senti le esplosioni. Resti, però, in Israele».
Una decisione che a chi segue da vicino lo scontro fa porre diverse domande. «Per il giornalista inviato è molto frustrante non poter non poter avere accesso alle aree. Le immagini che ci arrivano – dice Battistini – sono oggettivamente di una crudezza che ci interroga anche sul nostro mestiere, perché è strano, dopo tre mesi dall’inizio, poter accedere a Gaza soltanto accompagnati. Ti poni delle questioni etiche. Siamo costretti a raccontare questa guerra non vedendola direttamente con i nostri occhi».