Esclusiva

Febbraio 27 2024.
 
Ultimo aggiornamento: Marzo 2 2024
«Il giornalismo è metterci il cuore», Ciao Ernesto

Le lezioni a perdifiato, la sua cultura e l’entusiasmo da one man show, l’amore per il passato e lo sguardo al futuro: il nostro ricordo di Assante, maestro e amico di Zeta

Erano passate due ore ed era diventato impossibile fermarti. Alle 18 la giornata era finita: dovevamo andare a casa, eppure in quel momento hai preso fiato, per la prima volta da quando eri entrato in redazione. «Avete domande?». Come fanno a non esserci per Ernesto Assante? A qualunque orario, c’è sempre da imparare. Siamo rimasti quasi un’altra ora a chiacchierare, ma avresti messo le tende lì tutta la notte. Ti eri seduto al centro della stanza per ascoltarci, che è ben diverso dal sentirci: ce lo hai insegnato tu.

A ogni lezione ci raccontavi la tua vita scandendola in musica. L’infanzia con i Beatles, la ribellione adolescenziale dei Pink Floyd, l’età adulta a metà tra nostalgia e avanguardismo: trasudavi rock da ogni parola. C’era anche il ritmo, regolare e a perdifiato, pochissime pause. Ci invitavi a interromperti in qualunque momento, per creare un dialogo e un ponte tra generazioni diverse, ma tu abitavi anche la nostra. Facevamo fatica a disincantarci per alzare la mano.

La parte centrale della lezione diventava poi un quiz senza premi, una sorta di trasposizione Sarabandesca da one man show. Citazioni di artisti più o meno conosciuti, nomi di canzoni, frasi intere ricordate a memoria e copertine degli album. Non riuscivamo a “stare al tuo passo”, e l’alibi non poteva essere solo anagrafico. Eri irrefrenabile, vulcanico, un magma di conoscenza che trascendeva l’ambito musicale: cultura assoluta. A colpire era soprattutto il sorriso costante, il modo di interagire avvicinandoti a ognuno di noi, abbassandoti sulle gambe, per arrivare all’anima attraverso gli occhi.

Per alcuni era difficile anche darti del “tu”. «Siamo colleghi, e poi non sono così vecchio»: maestro e coetaneo al tempo stesso. Però tutto sembrava ruotare intorno al passato, e noi spesso, con tracotanza, avevamo troppa fame di futuro. Ancora ricordiamo quella filastrocca: «Se ci vestiamo così è per i Beatles, se parliamo in questo modo è per i Beatles, se ascoltiamo la musica di oggi è grazie ai Beatles». Fast fashion, rivoluzioni del linguaggio e mode, per te, erano conseguenze del loro passaggio. Anche se non li avevamo mai vissuti.

E poi c’era la chiave di tutto. Il giornalismo e il suo rapporto con il mondo dello spettacolo: insegnamenti a non finire. Le pagine di cultura sono poche, la musica non si può contenere in quei piccoli margini. Gli unici limiti li segnano gli artisti stessi, ecco perché bisogna tornare ad ascoltare più album – interi – e meno playlist. Eri il critico, ma non ti piaceva criticare. Come quella volta in cui ci hai raccontato di un concerto di Marco Masini. «Non mi piaceva, ero andato lì prevenuto». Ma quando hai visto le persone piangere, hai capito che un professionista del settore non può farsi influenzare dai suoi gusti. Ai giornalisti spetta il compito di spiegare la fenomenologia dei successi, l’amore del pubblico. Bisogna guardare la performance e l’audience, senza dare le spalle né all’artista né ai suoi fan. «È tutto qui il cuore di questo mestiere». D’altronde quel cuore con noi lo hai messo sempre, sensibile e appassionato, forse per questo fragile. Le lezioni erano finite prima di Sanremo, ma ti volevi già organizzare per qualche incontro extra dopo il Festival. Due ore in più per parlare di musica sono ossigeno, sempre meglio di due in meno.

Ora possiamo confessarlo: in quei primi 120 minuti di lezione non ti avevamo capito del tutto. Spesso quando parlavi ci guardavamo, «ma perché fa così pochi riferimenti al presente? Pensa solo agli anni Ottanta?», ci faceva dire quella smisurata nostalgia. In realtà, Ernesto, l’abbiamo compreso solo dopo: tu eri nel futuro. Ci stavi insegnando a guardare al passato, prima di poterti raggiungere.