Quel codino biondo era diventato iconico nel circuito tennistico. Da due anni Aleksandr Dolgopolov ha dato un taglio alla sua vita passata. Non raccoglie più i capelli con la fascetta e l’elastico: ora sono corti, nascosti per gran parte dell’anno sotto l’elmetto militare. All’inizio si fa fatica a riconoscerlo; sfoggia il suo sorriso solo davanti a qualche battuta sul nuovo look. Anche quegli occhi chiari si illuminano di meno. «La guerra mi ha spento. Sono tornato a Kiev dopo l’ultima missione, ma mi preparo a ripartire. Ho cambiato unità perché alcuni dei nostri sono stati feriti dalle bombe, quindi siamo stati rispediti a casa».
Fino ai 33 anni Dolgopolov ha dedicato la sua vita al tennis, raggiungendo il tredicesimo posto della classifica mondiale. Qualche mese prima di quel 24 febbraio 2022 era arrivato il suo congedo dal mondo sportivo, testimoniato dall’ex collega Roger Federer con un messaggio, reso pubblico dallo stesso Aleks. «Grazie per tutti i momenti divertenti passati sui campi d’allenamento».
Poi un periodo di pausa prima di entrare nell’esercito ucraino da volontario. Dalla racchetta alle armi: gli è bastata una settimana per imparare a cambiare impugnatura. «Quando la Russia ha annunciato l’invasione mi trovavo in Turchia. In cinque giorni un ex soldato mi ha insegnato a sparare: non ero diventato Rambo, ma riuscivo a centrare il bersaglio tre volte su cinque». La precisione non gli è mai mancata, ha solo dovuto affinarla su un altro campo. «La mia prima missione effettiva è stata nell’autunno del 2022. Ho avuto dai sei agli otto mesi per prepararmi con le armi e la medicina tattica, che è necessario conoscere nel caso accada qualcosa».
Ormai Dolgopolov parla con uno sguardo glaciale: al fronte ha imparato a fare i conti col freddo della guerra. E con i droni, di cui guida la flotta della sua unità. «Sai, i giocatori di tennis sono molto adattabili. Sfrutto tante cose che lo sport mi ha insegnato, come essere organizzato e mentalmente forte. Mentre intraprendevo il percorso di allenamento mi ero preparato a ciò che avrei visto ed è accaduto». Poi, però, arriva il momento di cambiare campo. «Ero lì in battaglia: mi bombardavano, sentivo le esplosioni vicino a me. Ricordo la sensazione di vedere un carro armato a 20 metri. Devi sparare anche tu. In estate eravamo degli zombie. Lavoravamo 15-16 ore al giorno. Dall’alba potevi finire anche alle dieci di sera e se qualcuno rimaneva ferito dovevi sostituirlo il giorno dopo». In quindici anni di carriera ha imparato a gestire la pressione, così come l’adrenalina, anche fuori dai grandi stadi. «Ce ne è tantissima qui. Sono sempre stato molto competitivo, quindi so sfruttarla a mio vantaggio. Ma in guerra non è positiva, è triste: preferirei trovare dieci modi diversi per provarla. Questo conflitto è pericoloso e basta, ci sono solo svantaggi». Aleks salva solo il contatto umano. «Ho conosciuto persone davvero belle. Impari a fidarti l’uno dell’altro, ad attraversare i periodi più bui, fino a realizzare che puoi perderle da un momento all’altro».
A proposito di compagni, c’è chi da sempre ha seguito una strada affine a quella di Dolgopolov. È Sergiy Stakhovsky: nel circuito tennistico rappresentavano insieme il proprio paese durante le sfide di Coppa Davis, ora lo fanno al fronte. In missione lavorano per unità diverse, «ma in realtà ci siamo visti proprio ieri», ricorda Aleks con orgoglio. «È appena rientrato, quindi ci siamo raccontati alcune storie. Succede sempre qualcosa di nuovo, entrambe le truppe si scambiano decisioni per essere più efficaci con le armi elettroniche. Mantenendo i contatti, sappiamo anche cosa sta facendo l’altro reggimento. È come coordinarsi reciprocamente». Nel 2022 Dolgopolov si era già ritirato dal mondo del tennis, mentre Stakhovsky aveva fatto più fatica a salutarlo. Dopo qualche mese in divisa militare, era tornato nei suoi abiti sportivi, salvo poi accettare di essere diventato a tutti gli effetti un soldato. Anche in questo percorso, i due sono partiti insieme. «Siamo andati come volontari perché avevamo amici in prima linea, quindi abbiamo portato loro alcune cose. È stato forse all’inizio dell’estate scorsa, abbiamo persino avuto alcune sessioni di pratica insieme. Un suo amico delle forze speciali ci ha addestrato con le armi. Siamo sempre in contatto». Rispetto a quando vestivano i colori gialloblù, però, i temi sono cambiati. «Non parliamo molto di tennis, a essere onesti. La maggior parte del tempo ci confrontiamo sulla guerra. Certo, possiamo ricordare qualcosa delle nostre carriere, ma questa non è la nostra vita di oggi».
Sotto le suole di Dolgopolov non c’è più la terra rossa dei campi da tennis, come quella di Rio de Janeiro, dove nel 2014 perse in finale contro Rafael Nadal. Ormai c’è la polvere della trincea. «Ho giocato abbastanza a tennis, ora basta. Oltre alla competizione, non mi manca nulla: mi allenavo otto ore al giorno e non mi piaceva viaggiare. Non sono così interessato, penso solo a dare a questo Paese un’esistenza futura». Che questa non sia la vita di Dolgopolov lo si capisce anche dal suo fisico. Prima era smilzo, più slanciato: colpiva quasi spezzandosi. Ora gli riuscirebbe difficile rompersi. «Sono più solido. Quando non sono in missione vado in palestra. Per anni ho praticato anche la boxe. L’ultima volta a tennis è stata nell’estate del 2021, dopo il ritiro. Mio padre stava allenando un ragazzino e mi ha chiesto di giocare con lui. Dopo 40 minuti avevo sei vesciche. Le mie mani sono diventate sensibili, avrei bisogno di fare di nuovo pratica e non mi va».
Il distacco dal suo vecchio mondo è accentuato dalle scelte degli atleti che si intrecciano con la guerra. Nell’estate del 2022 ai russi era stato impedito di giocare il torneo di Wimbledon, ora sono tornati in campo. «Penso che il mondo abbia fatto davvero un pessimo lavoro nel cercare di fermare tutto ciò. Lo sport è un ecosistema enorme per il governo, Putin stesso ha commentato dicendo che non dovrebbe essere mischiato con la politica. Poi, però, ai suoi concerti pro-guerra sono presenti atleti. Ci sono tonnellate di modi in cui le federazioni e i tennisti potrebbero esprimersi, ma hanno deciso di non farlo. Per me qualsiasi sportivo che non ha una posizione chiara è un nemico. Sono assassini silenziosi».
Prima di salutare in vista della prossima missione, Dolgopolov svela che fine abbia fatto la sua coda. «L’ho tagliata nel 2018 perché mi ero appena sottoposto all’operazione che ha concluso la mia carriera. Ho avuto la mano bloccata per diversi mesi. Ero abituato a raccogliermi i capelli venti volte al giorno: a un certo punto non potevo più farlo, così li ho tagliati». La risata con cui si congeda fa capire che quello spirito solare non è del tutto andato perso. «Mi sono fidato degli altri: tutti mi dicevano di vedermi bene con questi capelli e li ho tenuti così». Ora il codino è scomparso, ma la mano è tornata a funzionare. Aleks ha solo dovuto adattarsi a una nuova impugnatura.