Tante icone colorate con l’iniziale del proprio nome sullo schermo di un computer. Così, il 5 marzo 2020, apparivano per la prima volta le classi scolastiche di ogni ordine e grado dopo il decreto ministeriale del 4 marzo che ne stabiliva la chiusura a causa del Covid-19. Al tempo la pandemia riprogrammò le vite di milioni di bambini e ragazzi, costretti a svolgere le attività quotidiane nella solitudine della propria stanza.
Il vocabolario comune si è arricchito di parole come lockdown, distanziamento sociale, smartworking e DaD, la didattica a distanza. A livello europeo l’Italia è stato uno dei Paesi con i periodi di DaD più lunghi: durante l’anno scolastico 2019/20 le scuole italiane sono rimaste chiuse per novantasette giorni su duecento previsti, lasciando a casa circa 8,5 milioni di studenti. Ciò ha inciso sull’aspetto psicologico e relazionale dei giovani, andando a creare un gap nell’apprendimento con conseguenze sul lungo periodo, visibili ancora oggi. Una situazione che ha avuto ripercussioni negative soprattutto sui più piccoli, come spiega Patrizia, maestra in una scuola elementare: «È stato difficile insegnare ai miei alunni di sei anni a leggere e scrivere online. In seconda elementare alcuni non avevano imparato a leggere, mentre di solito si apprende già a dicembre del primo anno. Al momento ho bambini di quinta elementare che non ricordano ancora le tabelline». Lacune e vuoti che sono stati difficili da colmare in questi quattro anni. Le difficoltà didattiche sono state accompagnate da quelle comportamentali: «Il danno più grande causato dalla DaD è stata la mancanza di concentrazione. Rientrati a scuola dopo il lockdown i bambini non riuscivano nemmeno a stare seduti. Trascorrere tanto tempo a casa, in un ambiente familiare, non ha dato loro modo di adeguarsi alle norme comportamentali scolastiche».
La sospensione delle attività formative e ricreative, che contribuiscono allo sviluppo cognitivo e relazionale di un individuo, ha significato per molti l’assenza totale di stimoli e interazioni sociali. Marilena, giovane insegnante di sostegno, fa emergere le problematiche dovute alla mancanza di contatto umano: «L’aspetto emotivo è stato il più frustrante. Mi sentivo impotente davanti ad uno schermo perché non potevo essere d’aiuto, soprattutto agli alunni con specifiche difficoltà. Molti di loro facevano fatica a rapportarsi a distanza e a esprimere le proprie emozioni». Rientrati a scuola, con mascherine e distanziamento sociale, «spesso i bambini vivevano di riflesso le paure dei genitori, come quella del contagio, che venivano riportate in automatico nell’ambiente classe».
Dal report pubblicato a febbraio 2022 dalla onlus WeWorld emerge che, alla fine dell’anno scolastico 2019-2020, circa seicentomila studenti sono sempre rimasti esclusi da qualsiasi forma di didattica a distanza e non hanno preso parte alle lezioni online. Secondo l’analisi Istat si tratta dell’8% del totale, con una percentuale maggiore nel sud Italia, e fino al 23% tra gli alunni con disabilità. Non mancano, però, storie come quella raccontata da Isabella, da trent’anni insegnante di sostegno nelle scuole superiori: «Seguivo un ragazzo ipovedente e con problemi di equilibrio. Io e altri docenti non abbiamo cercato solo di colmare un vuoto didattico, ma soprattutto sociale. Di solito il pomeriggio organizzavo insieme all’assistente alla comunicazione delle lezioni extra per supportarlo e non fargli perdere quel minimo di autonomia acquisita». Un’iniziativa portata avanti secondo coscienza, cercando di coinvolgere l’alunno con varie attività e con un po’ di fantasia: «Lui era contento, viveva i nostri incontri online come un momento di socialità e ci chiedeva sempre di fargli compagnia oltre l’orario stabilito», aggiunge la docente.
La chiusura degli edifici scolastici ha di fatto privato i ragazzi dell’interazione abituale con i coetanei, una mancanza di esperienze e di confronto i cui effetti negativi sono complessi da quantificare. L’emergenza pandemica ha agito come amplificatore delle disuguaglianze: come evidenziato dall’Istat, nel 2020 la quota di famiglie italiane in condizione di povertà assoluta è salita al 7,7% (contro il 6,4% del 2019), raggiungendo il livello più elevato dal 2005, per un totale di 2 milioni di nuclei familiari. Come riporta sempre WeWorld, all’inizio della pandemia circa il 70% degli under diciotto non possedeva né un pc o tablet né la connessione Internet a casa. Dunque, la povertà economica si è intrecciata a quella educativa e le scuole hanno cercato di risolvere questo divario, come spiega Flora, dirigente di un istituto comprensivo di Caivano: «Il Mistero della Pubblica Istruzione ci ha assegnato delle risorse economiche per l’acquisto di tablet. Dopo le prime settimane di grande difficoltà siamo riusciti a distribuire questi device alle famiglie bisognose». In alcuni casi, però, l’esclusione dalle lezioni non era legata alla povertà economica, ma «alla mancanza di famiglie in grado di supportare i figli durante la didattica a distanza, sia a causa dell’analfabetismo informatico sia per impegni lavorativi», conclude lei.