Una ragazza con l’hijab cammina lungo una strada sterrata, lasciandosi alle spalle un edificio grigio e triste. Ad aspettarla un piccolo gruppo di amici e familiari. Li abbraccia, poi toglie il velo e lo porta in alto sventolandolo, sa già che non potrà procedere oltre e dovrà tornare indietro. È la conclusione di una delle ultime graphic novel del disegnatore Mana Neyestani e del politologo Farid Vahid, che illustrano la routine delle donne a Evin, la prigione più dura dell’Iran dove sono rinchiusi molti oppositori.
La donna degli autori rappresenta tutte le iraniane che hanno scelto la strada della dissidenza politica e da anni escono ed entrano dal carcere. Chi sceglie di dedicare la propria vita alla rivoluzione rinuncia a tutto, anche alla famiglia. Narges Mohammadi – attivista premio Nobel per la pace del 2023 – non vede da quattordici anni i due figli e il marito. Esce di prigione e racconta le torture subite. Le sue denunce potrebbero costarle una nuova reclusione, ma a lei non importa, ha applicato il detto femminista “il personale è politico”, rinunciando alla possibilità di vivere da privata cittadina, in esilio, per cercare di cambiare dall’interno il suo paese.
Dopo il 16 settembre 2022 si è pensato che qualcosa si potesse smuovere. «La morte di Jina Mahsa Amini – uccisa dalle percosse della polizia morale che l’aveva arrestata per un hijab troppo allentato – è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non era una militante, era una ragazza qualsiasi. È diventata figlia di tutti e simbolo della rivoluzione» spiega Shervan Haravi, attivista di origine iraniana e avvocata. Migliaia di persone sono scese in piazza portando cartelli che ritraevano il volto di Mahsa mentre intonavano lo slogan curdo Jin, Jîyan, Azad (Donna Vita Libertà), coniato da Abdullah Oçalan (leader del PKK) diventato l’inno delle proteste iraniane. A guidare la lotta sono le donne, specie quelle giovani: «Questa nuova generazione non conosce per esperienza diretta la libertà, ma la bramano e non hanno timore di richiederla. Poi sono aiutate dai social media, ogni cittadino ora è un fotoreporter che documenta atti di violenza, o manifestazioni per inviarli alla stampa fuori», puntualizza Haravi.
Anche se le luci dei media hanno funzionato a intermittenza, le proteste sono andate avanti. Uomini e donne hanno continuato ad animare le piazze iraniane, e quando il regime ha cominciato a reprimere i manifestanti il dissenso ha mutato forma, ma è continuato. L’ultima dimostrazione è avvenuta durante le tornate elettorali svoltesi il primo marzo 2024: «Il governo ha dichiarato un’affluenza al 40%, ma fonti vicine alle opposizioni sostengono che i dati siano stati gonfiati e che abbiano partecipato solo il 20% e il 25% degli aventi diritto». In quei giorni in tutta la regione, gli oppositori che sono stati costretti a votare, pur di non appoggiare i candidati, hanno scritto “Jina” sulla scheda, in onore di Mahsa Amini.
Ora che il Parlamento eletto è più radicale, la paura è che i provvedimenti che verranno presi potrebbero limitare sempre più la libertà delle donne. «Per questo anche se i premi sono belli e le ricorrenze utili, non bastano. Bisogna continuare a parlare di Iran, e bisogna farlo sempre – conclude Haravi – loro ce lo stanno mettendo tutta e non dobbiamo dimenticarle».
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