Esclusiva

Marzo 11 2024
Dal carcere alla rinascita con il lavoro, la storia di Marcello Lupo

Dopo più di vent’anni di reclusione, Marcello Lupo racconta la sua nuova vita grazie al lavoro come aiuto cuoco

«Ero in metro. Da Rebibbia andavo verso stazione Termini, dove avrei cambiato per la fermata Cipro. Dopo tanto tempo, vedevo intorno a me una folla di persone. La maggior parte con i telefonini in mano, che io ricordavo con antenna, piccoli tasti e in bianco e nero. Un uomo mi sembrava parlasse da solo, pensavo fosse pazzo. Oggi ho capito che aveva un auricolare nell’orecchio». Marcello Lupo descrive così il tragitto verso il posto di lavoro nel quartiere Prati di Roma, dopo più di vent’anni di carcere. A gennaio 2021, fa il colloquio. Passato un mese, riceve l’ok definitivo dal magistrato di sorveglianza. Arriva il 28 aprile, il primo giorno in uscita verso una nuova opportunità di vita. «Mi tremavano le gambe, sudavo, mi sentivo gonfio, confuso, non capivo più niente. Quando sono arrivato al ristorante dove avrei iniziato a lavorare come aiuto cuoco, c’era Flavia ad aspettarmi». 

Flavia Filippi è una giornalista, esperta di cronaca giudiziaria, con una lunga carriera alle spalle. Dal 2022, si dedica con passione a “Seconda Chance”, la no profit nata dalla sua attività di volontariato. Oggi l’associazione agisce con una rete capillare di referenti a livello regionale sparsi sul territorio nazionale, facendo da cerniera tra istituti penitenziari e imprenditori. L’obiettivo è cercare opportunità lavorative a carcerati, ex detenuti e ai loro familiari facendo conoscere alle imprese italiane la legge Smuraglia. La norma offre sgravi fiscali e contributivi a chi assume full time, part time o a tempo determinato reclusi ammessi al lavoro esterno al carcere. Ad aderire, realtà importanti come Nespresso, Conad, Acqua Vera e McDonald’s. «Ho iniziato dal mio parrucchiere – dice la Filippi – chiedendo se avesse bisogno di qualcuno che lo aiutasse al negozio. Ho proseguito così con tutti i miei contatti, bussando ad ogni singola porta. In due anni abbiamo trovato ben duecentosessanta offerte di occupazione». L’azione di Seconda Chance è in espansione continua, ed è diventata un punto di riferimento per chi è in prigione.

Molte esperienze sono state positive, come quella di Marcello, quarantanove anni, che era poco più che un ragazzo quando è entrato in cella. «Il momento in cui sono stato scelto dall’azienda è stato per me un primo piccolo traguardo. Il titolare mentre parlavamo non sapeva chi fossi, quale reato avessi compiuto. Non ti giudicano per quello che hai fatto in passato, ma per quello che sei oggi e che potrai diventare domani». L’ex detenuto racconta di come l’ammissione al lavoro esterno gli abbia permesso di pensare di nuovo alla vita fuori. «Nel periodo iniziale passato nel penitenziario di Palermo, ero molto chiuso. Avevo in mente solo la mia data di uscita. Negli anni ho avuto modo di riflettere, ho provato la sofferenza dell’isolamento. La prima volta che ho rivisto un albero è stato a Rebibbia. Non sapevo più cosa fosse una foglia». 

La voce di Marcello si spezza, e la commozione non si nasconde dietro gli occhi azzurri lucidi: «Una volta ammesso al lavoro, mi hanno portato al reparto Venere insieme agli altri detenuti nella mia stessa condizione. Lì avevamo la possibilità di passeggiare sul terreno, c’è una sorta di orto. Ho pensato “voglio tentare”. Era intorno al 12 aprile, tolgo le scarpe e non lo so. Ho sentito un’emozione, qualcosa di forte. Non ci credevo. Ero abituato a vivere nel cemento, solo se lo provi puoi capire». 

Pochi giorni dopo, Marcello si è ritrovato a darsi da fare in un ristorante, tornando ad avere un contatto con la realtà. I discorsi con i colleghi erano diversi, ha imparato ad usare lo smartphone e a contare i soldi che poteva usare durante le ore fuori, dato che conosceva solo le lire. Divertito, parla della piccola disavventura per tornare verso il carcere di Rebibbia: «Alle sedici dovevo affrontare la vita: sarei rientrato da solo. Avevo scritto il tragitto, con il numero dell’autobus e della metropolitana. Ho raggiunto la fermata Cipro senza problemi, ho chiesto informazioni per Rebibbia e mi hanno detto che avrei dovuto prendere la metro B a Termini. Ci arrivo, faccio il cambio di treno. Ero teso perché un amico mi stava aspettando al capolinea, ero senza cellulare e cabine telefoniche non ne trovavo. Avevo con me i contatti più importanti: il carcere, casa mia e il numero della persona che mi attendeva. Ad un certo punto – prosegue Lupo – scendo e leggo “Libia”. Ho pensato che Libia e Rebibbia fossero la stessa cosa. Ma appena ho chiesto aiuto – dice sorridendo – mi hanno suggerito di tornare indietro a Bologna. Ma che cos’è Bologna? Io non conoscevo nulla. Quindi, andai a prendere la linea B, tardando sull’orario di rientro. Le guardie penitenziarie, che ormai mi conoscevano, ridevano con me. È stata una barzelletta». 

Con l’ammissione al lavoro esterno, Marcello ha ottenuto anche dei permessi. Grazie alle ore di uscita, ha potuto fermarsi nei posti dove di solito era solo di passaggio verso il ristorante: «Ho iniziato a girare, a godermi la città. Mi piace andare per musei, e Roma è piena di storia ad ogni angolo». Il mondo lo descrive molto diverso da come lo aveva lasciato, le persone sorridono di meno perché più distratte, sono molti di più gli uomini e le donne che in strada chiedono un aiuto. Una realtà con cui sta tentando di rimettersi al passo. Lavorare è stata una tappa fondamentale: «Sono rinato. Nel mio caso, l’esito è stato più che positivo. Dalle cucine delle carceri sono passato ai ristoranti, oggi sto cercando un qualcosa di tutto mio. Nelle prossime settimane ho appuntamenti per un progetto, non mi voglio fermare. Dopo ventidue anni, desidero solo ricominciare a muovermi». Lupo non è sposato, non ha figli, ed ha iniziato a scontare la pena che era solo un ragazzo, pieno di sogni. «Ho conosciuto ventenni già stanchi di vivere, non può essere così. Io oggi ho quasi cinquant’anni, devo rimettermi in gioco. Ho studiato letteratura in carcere, passavo le mie giornate in sala lettura. Alcuni giovani non sono stimolati da nessuno, vengono da contesti familiari difficili in cui la criminalità è vista come l’unica soluzione per avere un piatto sulla tavola. Dedicarsi a un mestiere significa crearsi un futuro, riappropriarsi della propria vita. Spero che tanti come me possano avere questa opportunità. Ora guardo alla mia rinascita, mi auguro di poter regalare un sorriso con i miei piatti di cucina mediterranea».