Esclusiva

Aprile 18 2024
I film che hanno ispirato il regista Marco Bellocchio

Una masterclass di cinema con le pellicole che hanno segnato la vita e lo stile del regista Marco Bellocchio

Per una sera le riunioni culturali newyorkesi dello scrittore Antonio Monda, sono stati trasportate al cinema Troisi a Trastevere a Roma. Il 12 marzo, assiema al regista Marco Bellocchio, ha tenuto una masterclass di cinema. L’idea a detta dello stesso Monda è proprio quella di «prendere dei grandi registi e farli parlare delle loro ispirazioni, che non sempre sono i film più belli di tutti i tempi, ma sono quelli che hanno significato di più per loro». L’evento si è aperto con l’omaggio a Paolo Taviani, cineasta contemporaneo a Bellocchio e amico dei due. La prima scena proiettata sullo schermo è di “Kaos” pellicola girata dai fratelli Taviani (Paolo e Vittorio), liberamente ispirata a quattro novelle dell’autore siciliano Luigi Pirandello, nato appunto nella contrada omonima in provincia di Agrigento. Sia Bellocchio che i due fratelli fanno parte di quella generazione di registi che ha recepito l’eredità dei padri neorealisti, ma che ha costruito un nuovo linguaggio cinematografico, che anziché adottare il punto di vista oggettivo del neorealismo, ha assunto una visione più sfumata, ambigua e soggettiva della realtà, esplorando la casualità e la complessità degli sguardi e delle prospettive. 

Il primo film della lezione è invece uno dei capolavori di Carl Theodore Dreyer, Ordet. Anche qui come in tutto il suo cinema i temi sono quelli della sofferenza, della morte e il legame tra l’uomo e Dio. Da non credente il regista romano vede però la «bellezza» in questo film proprio nel racconto che della fede fa il suo omologo danese: «La fede pura della bambina che permette alla madre di resuscitare grazie alla preghiera mi emoziona e mi coinvolge anche da laico», anzi Bellocchio si trova d’accordo proprio con Dreyer nella critica che in “Ordet” c’è nei confronti di « un certo cattolicesimo ipocrita» La prima clip scelta da Monda è invece estratta dal primo film di Bellocchio stesso: I pugni in tasca. Nel 1965, quando è arrivato sullo schermo per la prima volta aveva fatto molto discutere e il suo protagonista vitale ma distruttivo era stato considerato quasi un protorivoluzionario, anche se poi dei giovani contestatori del Sessantotto, e Bellocchio era uno di questi, condivideva forse il dinamismo, che però in lui è avvelenato dal nichilismo.

Subito dopo ci sono sullo schermo Alida Valli e Farley Granger, gli interpreti di Livia Serpieri e Franz Mahler nel primo film a colori di Luchino Visconti, “Senso”. «Visconti prende spunto dalla sua esperienza, dalla sua famiglia e lo rappresenta in maniera straordinaria nella cornice della storia» dice Bellocchio. In un certo senso anche il regista romano prende spunto dalla sua vita familiare e la cala nel contesto storico. La scena mostrata subito dopo è, infatti, la sequenza finale del suo “Buongiorno Notte”. A detta dello stesso cineasta il film è dedicato a suo padre «morto troppo giovane» e che identifica in qualche misura con l’ex presidente del consiglio democristiano Aldo Moro, anche se non li sovrappone. Per questo motivo e per un sentimento di riconoscenza nei suoi confronti lui e in quelli del segretario del partito comunista Enrico Berlinguer, per aver tentato assieme di riformare il sistema a metà degli anni Settanta, «la figura di Moro è rappresentata con attenzione ed affetto».

Poi è stato il turno di quello che Bellocchio definisce un film «perfetto, che ti cattura fino alla fine, ma che purtroppo ha vinto il premio Oscar solo per il montaggio»: “Citizen Kane”, o in italiano “Quarto potere”, e che ha «una delle immagini più belle del cinema: «Il protagonista che cammina e la sua sagoma viene moltiplicata negli specchi». L’ultima pellicola mostrata è “L’infanzia di Ivan” di Andrei Tarkovsky. «Lì ci sono genio e bellezza senza esibizionismo, Tarkovsky non ha bisogno di barocchismi vuoti per stupire il pubblico», dice Bellocchio. Secondo lui il lavoro del regista russo rappresenta la distanza tra un “vecchio” tipo di fare cinema e quello dei giovani cineasti che si sono affacciati da poco alla professione. Dopo la masterclass, Bellocchio specifica a Zeta il suo discorso: «Le potenzialità del digitale permettono a tutti di stupire l’audience, ma il digitale non è fantasia e dietro la meraviglia degli effetti scenici e speciali non c’è nulla».