Il 4 marzo 2005 milioni di italiani sono sintonizzati su Rai 1 per la penultima serata del Festival di Sanremo. Paolo Bonolis annuncia al Paese la liberazione di Giuliana Sgrena, l’inviata de Il manifesto rapita a Baghdad da un gruppo armato un mese prima. La gioia dura appena alcuni minuti. In diretta arriva presto un aggiornamento drammatico.
Sgrena è stata liberata, ma a costo del sacrificio di Nicola Calipari, agente del SISMI e numero due dell’intelligence per le operazioni estere. La stessa giornalista risulta ferita, raggiunta alla spalla da un proiettile.
L’auto su cui viaggiavano è stata colpita dal “fuoco amico” statunitense, a poche centinaia di metri dall’aeroporto. Un incidente di guerra, secondo l’inchiesta americana. Vent’anni dopo, le responsabilità non sono mai state chiarite. Né la famiglia di Calipari né Giuliana Sgrena avranno mai diritto alla verità.
Oggi la storia di Nicola si fa fiction: il 6 maggio uscirà nelle sale Il Nibbio, film omaggio con Claudio Santamaria nel ruolo del protagonista.
In un’intervista con Zeta, Giuliana Sgrena ripercorre le tappe del rapimento e della liberazione. Torna nel ricordo a quel 4 marzo 2005, onorando la memoria di Nicola Calipari, l’“eroe gentile” che le ha salvato la vita. Due volte.
Questa è la seconda parte dell’intervista.
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PARTE DUE: LA LIBERAZIONE E L’ATTACCO ARMATO
Dice che Nicola l’ha salvata due volte, dai rapitori e dagli statunitensi. Cos’è successo la sera del 4 marzo?
Prima di liberarmi e portarmi al luogo della consegna i rapitori mi avevano avvertita: «Noi abbiamo promesso alla tua famiglia che tornerai sana e salva in Italia, ma sono gli americani a non volere. Se ti riconoscono noi apriamo il fuoco e saltiamo tutti per aria», lasciandomi intuire che la macchina su cui mi trasportavano fosse imbottita di esplosivo. Non avevo preso queste frasi sul serio. Credevo fossero le solite invettive contro gli Stati Uniti.
Io comunque non mi sentivo serena. Ero sotto shock e non riuscivo a realizzare di essere stata liberata, anche quando Nicola venne a prendermi e mi fece salire sull’altra macchina. Alla guida della Toyota c’era un altro agente del SISMI, Andrea Carpani.
Dopo una ventina di minuti l’autista dice: «Mancano 900 metri e siamo all’aeroporto». Dentro di me inizia a scattare la sensazione di essere davvero libera, ma proprio in quel momento gli americani iniziano a sparare. Carpani dice «Ci attaccano, ci attaccano». Arrivano spari da destra, Calipari mi butta giù tra i due sedili e si butta sopra di me, facendo da scudo. In quel momento smette all’improvviso di parlare, perché è stato colpito. Percepisco il corpo di Calipari appesantirsi sopra il mio. Una sensazione terribile, che non potrò mai scordare nella vita. Una persona che ti muore addosso.
Nella sparatoria io sono comunque stata raggiunta da un proiettile, esploso nella spalla. Se Nicola non mi avesse protetta io oggi non sarei qua a raccontarlo. In questo senso Calipari mi ha salvato due volte. Mi ha prima liberata e dopo mi ha protetta dagli spari americani.
Gli Stati Uniti sostengono sia stato un «tragico incidente». Cosa non torna della loro versione?
[L’inchiesta militare statunitense giunge alla conclusione che la vettura si stesse avvicinando a un checkpoint stradale alla velocità di 100km/h, ignorando i segnali di stop. In questo caso i soldati sarebbero stati autorizzati a sparare a vista, secondo la regola delle 4S. Nella versione italiana la velocità non superava i 50km/h e gli spari non erano stati preceduti da alcun avvertimento. NdR]
La sparatoria è stata effettuata da una pattuglia mobile che si trovava fuori dalla strada. Si chiamavano anche illegal checkpoint. Per ragioni di sicurezza le regole di ingaggio cambiavano di volta in volta. La pattuglia era stata istituita lì alle 19.30, perché quella sera l’ambasciatore americano Negroponte andava a cena nella zona dell’aeroporto. Di solito si spostava in elicottero, ma viste le condizioni meteorologiche sarebbe andato via terra.
Ogni quarto d’ora i militari chiamavano il comando per chiedere «Possiamo spostarci? Altrimenti diventiamo un obiettivo». Rispondevano sempre di no. Alle 20:20 Negroponte aveva comunicato che al ritorno avrebbe viaggiato in elicottero, perché non pioveva più.
Nonostante questo, alle 20:30, il comando ordina alla pattuglia: «Rimanete lì, perché tra 20 minuti arriva il convoglio». Non è chiaro cosa intendessero per convoglio, ma dopo 20 minuti siamo arrivati noi. Il dubbio che si riferissero proprio a noi sorge spontaneo.
Oltretutto, le comunicazioni di quella sera tra la pattuglia mobile e il comando sono stati distrutti. Gli americani sapevano con esattezza dove andavamo e cosa facevamo: Carpani era in collegamento con un altro italiano all’aeroporto e quest’ultimo si trovava insieme al capitano Green del coordinamento statunitense. Le comunicazioni erano intercettatili perché avvenivano su linee telefoniche americane. È incredibile che gli USA abbiano negato ogni tipo di responsabilità, definendo la sparatoria un «tragico incidente».
Il caso è finito in tribunale, ma il processo non si è mai concluso. Come sono andate le cose?
Nella relazione militare statunitense erano stati coperti i nomi sensibili, ma uno studente a Bologna è riuscito ad aprire il documento, facendo saltare gli omissis. Sono usciti i nomi di tutti i soggetti coinvolti, compreso il soldato che ha sparato con la mitragliatrice, Mario Lozano.
Io sono convinta che non fosse l’unico responsabile, ma portarlo a processo poteva essere un punto di partenza per scoprire la verità. In una seduta preliminare del tribunale per istruire la pratica si era determinato che quello di Calipari fosse un “omicidio politico” e, quindi, sotto la giurisdizione italiana.
In Corte d’Assise, l’avvocato di Mario Lozano aveva chiesto di riesaminare tutte le eccezioni. Sia io che la moglie di Calipari abbiamo accettato per garantismo, con il risultato che la Corte si è pronunciata a nostro sfavore. In base alla “consuetudine dello zaino” Lozano poteva essere processato solo nel Paese di cui portava i documenti, ovvero gli Stati Uniti. Nel 2008 siamo finiti in Cassazione, dove è stata confermata la sentenza della Corte d’Assise.
Durante il dibattito con il procuratore generale è arrivata una telefonata da Palazzo Chigi che diceva di mollare tutto. Con grande imbarazzo, l’avvocato dell’avvocatura dello Stato ha interrotto il suo intervento e la cosa è finita lì. L’Italia non aveva dalla giurisdizione per un’immunità funzionale di Lozano. Io sono stata condannata a pagare le spese processuali. I soldi non mi sono mai stati richiesti, ma è stata comunque una bella beffa.
Quindi dietro il fallimento del processo c’è lo zampino del Governo?
Quando è iniziato il processo, il premier Romano Prodi si è costituito parte civile. All’arrivo in Cassazione, a Palazzo Chigi c’era di nuovo Berlusconi, che era stato Presidente del Consiglio anche durante il rapimento. Nel 2005 aveva fatto di tutto per liberarmi. Nel 2008 ha scelto di salvaguardare i rapporti diplomatici, confermando la sudditanza dell’Italia agli Stati Uniti. C’è da dire, però, che nessun altro governo successivo si è sforzato di ottenere una risposta ufficiale dagli americani. Si sa che quando ci sono di mezzo loro è difficile far valere la nostra autorità. Era già successo in altre occasioni, come la strage del Cermis.
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