Esclusiva

Marzo 4 2025
Sgrena ricorda Calipari: «La sua morte ha segnato un prima e un dopo»

La giornalista omaggia Calipari, l’uomo che l’ha salvata dal fuoco americano il 4 marzo 2005. «Si era seduto accanto a me per farmi sentire più sicura»

Il 4 marzo 2005 milioni di italiani sono sintonizzati su Rai 1 per la penultima serata del Festival di Sanremo. Paolo Bonolis annuncia al Paese la liberazione di Giuliana Sgrena, l’inviata de Il manifesto rapita a Baghdad da un gruppo armato un mese prima. La gioia dura appena alcuni minuti. In diretta arriva presto un aggiornamento drammatico.

Sgrena è stata liberata, ma a costo del sacrificio di Nicola Calipari, agente del SISMI e numero due dell’intelligence per le operazioni estere. La stessa giornalista risulta ferita, raggiunta alla spalla da un proiettile. 

L’auto su cui viaggiavano è stata colpita dal “fuoco amico” statunitense, a poche centinaia di metri dall’aeroporto. Un incidente di guerra, secondo l’inchiesta americana. Vent’anni dopo, le responsabilità non sono mai state chiarite. Né la famiglia di Calipari né Giuliana Sgrena avranno mai diritto alla verità.

Oggi la storia di Nicola si fa fiction: il 6 maggio uscirà nelle sale Il Nibbio, film omaggio con Claudio Santamaria nel ruolo del protagonista.

In un’intervista con Zeta, Giuliana Sgrena ripercorre le tappe del rapimento e della liberazione. Torna nel ricordo a quel 4 marzo 2005, onorando la memoria di Nicola Calipari, l’“eroe gentile” che le ha salvato la vita. Due volte.

Che ricordo ha degli ultimi venti minuti passati con Nicola?

Il suo modo di fare era molto rassicurante, così come il suo tono di voce. La prima frase che mi ha detto è stata: «Giuliana, Giuliana, sono Nicola, sono venuto a prenderti. Adesso ti porto su un’altra macchina». Io in quel momento non vedevo. Avevo gli occhi coperti da cotone e occhiali da sole. Dopo cinque minuti di tragitto mi ha detto: «Adesso puoi togliere tutto, sei libera». Ha intuito subito il mio stato di confusione e cercava di rassicurarmi: «Mi siedo accanto a te, così ti senti più sicura». 

Poteva sedersi davanti, invece si è seduto dietro per starmi vicino, parlandomi di tutti i contatti che avevamo in comune. Riusciva a farsi percepire quasi come un amico. Era molto disponibile e manifestava una grande sensibilità. Dopo la sua morte ho conosciuto alcuni suoi colleghi, che mi hanno confermato come avesse preso davvero a cuore il mio caso. Lo stesso era successo l’anno prima con le due Simone (Torretta e Pari). 

La sua uccisione le ha generato un trauma. È una ferita ancora aperta? 

Nella mia vita c’è un prima e un dopo. La sua morte mi ha impedito di essere contenta per la mia liberazione. Anche il sequestro ha lasciato delle sequele: la claustrofobia e la paura del buio, per citarne alcune. Niente, però, mi ha segnato più la morte di Calipari. Quando si è buttato su di me per proteggermi dagli spari e ho sentito il suo corpo appesantirsi è stata un’esperienza terribile.

Dopo 20 anni c’è ancora sui social chi continua ad accusarmi di essere la causa della sua morte. Non sono stata io a ucciderlo, sono stati gli americani. Eppure in qualche modo continuo a sentirmi responsabile, anche se dal punto di vista razionale so di non esserlo. Perché io ci sono e lui no, io sono viva e lui è morto. La sindrome del sopravvissuto risulta anche dalle perizie psichiatriche che ho fatto. È una condizione che devo accettare e non potrò mai superare. 

Cosa ne pensa del film Il nibbio? Renderà giustizia alla memoria di Calipari?

Rispetto ad altri misteri italiani, la storia di Nicola è stata poco raccontata. Da questo punto di vista, ben venga qualunque film che gli renda omaggio. Non dimentichiamoci però che Il nibbio è una fiction e non corrisponde alla realtà. Io sono stata coinvolta per rivedere alcune parti della sceneggiatura. Per dare la mia liberatoria, volevo che fosse evidente la dinamica della sparatoria, ovvero che gli spari non venivano da un checkpoint sulla strada ma da una pattuglia mobile alla nostra destra. Questo era per me il dettaglio più importante. 

Tutto quello che è successo ha cambiato il suo modo di fare giornalismo?

No, quello non l’ho mai messo in discussione, perché è l’unico modo per fare giornalismo in posti del genere. Non era la prima volta che mi trovavo in teatri di guerra: ho coperto, tra i vari, l’intervento militare in Afghanistan e le due Guerre del Golfo. Prima del sequestro ho fatto il possibile per evitare rischi, eppure sono stata rapita lo stesso. Quando è successo mi è crollato il mondo addosso, ma avevo la coscienza a posto. La convinzione di aver fatto le cose al meglio mi ha anche aiutato a sopportare quel mese di prigionia. La prima cosa che ho fatto quando mi sono rimessa in piedi è stata andare in Afghanistan a seguire le elezioni. Poi sono tornata altre due volte a Baghdad. Tutto questo ha solo rafforzato la mia visione del giornalismo, che è uscire allo scoperto per andare a cercare notizie e verificare le fonti. 

Dicono di me che me la sono andata a cercare. Dopo venti anni sono giunta a una conclusione. Sì, me la sono andata a cercare, se questo significa correre dei rischi per fare bene il proprio lavoro. Quest’estate uscirà un mio libro, che si intitola proprio “Me la sono andata a cercare”, in cui racconto le mie esperienze da inviata nei Paesi in guerra. 

La verità è che c’è sempre un doppio standard. Un giornalista uomo, quando viene rapito, è sempre un eroe. Se sei donna, o ritorni in una bara – come è successo a Ilaria Alpi e a Maria Grazia Cutuli – oppure, se torni viva, te la sei andata a cercare.

Il ricordo di Nicola Calipari fa parte di un’intervista più ampia che Giuliana Sgrena ha concesso a Zeta:

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