«La peggior sensazione che dà il carcere è quella di trascorrere una vita vuota: se passi giorni e giorni senza nessun senso la tua disperazione ti porta al suicidio», sono le parole di Emilio Santoro, professore di Filosofia del diritto dell’università di Firenze e presidente del comitato scientifico dell’associazione L’altro diritto. Secondo l’organizzazione Antigone, nel 2024 sono state ottantotto le persone che si sono tolte la vita nei penitenziari: un dato che ha superato il triste record del 2022, quando i casi sono stati ottantacinque. Dall’inizio dell’anno fino al 15 marzo invece, i morti per suicidio negli istituti di pena sono già stati diciassette.
In questa situazione, restituire significato alle vite trascorse dietro le sbarre non è cosa da poco. Un’importante iniziativa a riguardo arriva da Perugia: il 14 febbraio scorso, l’assessore allo Sport Pierluigi Vossi ha proposto nella giunta comunale di arrivare alla sottoscrizione di un protocollo che consenta alle persone coinvolte in procedimenti penali, detenuti compresi, di partecipare alle attività sportive e di svolgere lavori socialmente utili all’interno di questi contesti, compresi quelli legati alla cura delle disabilità e presso la Croce Rossa.
L’assessore ha unito le sue due passioni: lo sport e il diritto. Avvocato da ventisette anni, fa parte del Consiglio nazionale forense, ma da ragazzo ha giocato nelle giovanili del Perugia fino ad arrivare in Serie C e ora è vicepresidente vicario dell’Associazione italiana allenatori di calcio. «Ho sentito l’esigenza, anche con gli altri colleghi dell’Ordine di Perugia, di redigere un protocollo dove emerge la volontà di andare a prendere quelle fragilità, tra adulti e minori, e farle immergere in una realtà, come quella sportiva, che magari non hanno mai frequentato». Lo scopo è quello di imparare a riconoscersi nei valori della competizione: sacrificio, bellezza e sano agonismo.
Uno degli aspetti centrali dell’accordo è la possibilità di applicare misure alternative alla detenzione, come il lavoro di pubblica utilità favorendo percorsi educativi che rafforzino il senso di responsabilità individuale e tentino di dare un’ancora di salvezza per chi è in cella: «Lo sport dà la possibilità di sfogarsi e liberare energie positive. L’iniziativa segue l’esempio di Milano e Roma che hanno già lavorato in questa direzione e si potrebbe anche esportare il modello a livello nazionale», commenta l’assessore.
La vera importanza di progetti del genere consiste nel ridare un senso alla vita, nel concepire in maniera costruttiva la detenzione e di «restituire valore al tempo buttato via, sensazione che rende avvilente l’esistenza del singolo», commenta Santoro. E si può raggiungere questo scopo istituendo nelle carceri corsi di alfabetizzazione in italiano o qualunque altra possibilità che tenga impegnato in maniera assennata il detenuto. Ed è proprio sul concetto di responsabilità che insiste il professore facendo un distinguo tra la nostra cultura e quella del nord Europa: «Noi stiamo continuando a parlare di carcere-rieducativo, invece in altri Paesi ha attecchito la definizione di carcere-responsabilizzante che consiste nell’autonomizzare i prigionieri e non renderli dipendenti dall’istituzione».
Da quelle parti, racconta Santoro, il carcere è organizzato come se fosse una specie di college o di residenza universitaria, perché i detenuti hanno perfino dei soldi da amministrare e sono organizzati con le cucine in comune dove possono prepararsi i pasti. In Norvegia, le prigioni sono strutturate ad albero come un paese del Far West con una strada principale che divide da una parte le diverse attività da svolgere e dall’altra le celle.
Nel secolo precedente ci sono stati alcuni tentativi di migliorare la situazione. Nel 1940 il sociologo americano Donald Clemmer pubblicò un saggio, The Prison Community, in cui sosteneva che le carceri non creano socializzazione, ma prigionizzano e abituano le persone alla vita carceraria che è del tutto diversa rispetto a quella esterna. In ambienti di questo tipo risulta quasi impossibile impedire l’effetto distruttivo del socializzante annichilimento della detenzione. Uno dei maggiori architetti italiani del XX secolo, Giovanni Michelucci, che ha progettato anche la stazione di Firenze Santa Maria Novella e la chiesa di San Giovanni Battista, sognava una città in cui l’istituto penitenziario non fosse inteso né come concetto né come luogo. Diceva di voler rendere il penitenziario una parte del paese e far diventare la vita dei detenuti il più possibile simile a quella esterna: quando ha costruito un giardino dentro il carcere Solliciano di Firenze lo ha chiamato il “Giardino degli incontri” proprio per questo motivo.
Purtroppo, l’approccio carcerario dominante in Italia è figlio della cultura lombrosiana: Cesare Lombroso è stato un medico, antropologo, filosofo, giurista e criminologo italiano. Influenzato dalla fisiognomica, dal darwinismo sociale e dalla frenologia, è il fondatore dell’antropologia culturale. Le sue teorie si fondano sul concetto del criminale per nascita: le origini del comportamento criminoso sono connaturate nelle caratteristiche anatomiche di una persona ed è quindi la genetica a determinare la differenza tra un delinquente e un bravo cittadino. L’unico approccio utile per redimerlo era far ricorso al trattamento clinico-terapeutico. «Da questo orientamento è derivata la concezione secondo cui se un criminale è autonomo commette i reati e quindi bisogna togliergli l’autonomia. Il concetto stesso di rieducazione è figlio dell’idea che esista un criminale da rieducare».
Sono anni che le associazioni per i diritti dei carcerati si battono affinché la situazione nelle carceri cambi, ma «finché ci sarà un sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia che dice di provare gioia nel togliere il respiro ai detenuti in regime di massima sicurezza è inutile dire qualsiasi cosa». Il professore si riferisce alla frase che Andrea Delmastro Delle Vedove di Fratelli d’Italia ha pronunciato durante la presentazione dell’autovettura blindata del Dipartimento dell’autorità giudiziaria (Dap) che ha suscitato non poche polemiche. La politica è simbolica e il diritto penale è simbolico per eccellenza: «Le manifestazioni in piazza non sono la soluzione, bisogna ridare un senso al tempo che i detenuti passano nelle carceri e responsabilizzarli».