L’arte della confessione autentica sfida i confini del tempo. Ne è prova il dialogo a distanza tra le “Confessioni” di Sant’Agostino e l’opera di Bob Dylan, in particolare “I Dreamed I Saw St. Augustine”, brano del 1967 dove il cantautore americano evoca il teologo di Ippona mentre cammina, inquieto, tra le strade della modernità.
Questa canzone viene registrata durante un periodo di profonda trasformazione per l’artista americano, all’interno dell’album “John Wesley Harding”, che segna un punto di svolta: abbandonato il rock elettrico e psichedelico degli anni precedenti, il musicista si orienta verso sonorità essenziali e testi densi di riferimenti biblici. L’orchestrazione ridotta all’essenziale – chitarra acustica e batteria discreta – contrasta con la complessità del testo, che si apre riecheggiando la canzone popolare “Joe Hill” ma creando subito un paradosso: mentre Joe Hill era un sindacalista martirizzato, il santo nordafricano non subì il martirio fisico, suggerendo l’assenza di guide morali nella modernità.
Le “Confessioni” agostiniane rappresentano la prima grande autobiografia spirituale della cultura occidentale. Raccontando il proprio percorso dal manicheismo al cristianesimo, il filosofo crea un modello di autonarrazione che trascende la mera cronaca personale per diventare un’esplorazione universale delle contraddizioni umane. Con inedita schiettezza, rivela i suoi errori giovanili, le ambizioni mondane, i dubbi intellettuali che precedono la sua conversione.
Secondo Antonio Musarra, docente di Storia Medievale presso l’Università la Sapienza di Roma, le “Confessioni” agostiniane contengono tratti di sorprendente modernità. «L’elemento della narrazione non è banale per un testo di quel secolo», spiega Musarra. «Il racconto viene immaginato come edificante per chi lo legge, ma a prima vista è un dialogo tra il sé e la propria anima, una profonda riflessione su sé stesso. È un elemento che oggi è presente nella narrativa. Quel modello è vincente».
Il professore sottolinea un altro aspetto rilevante: «Agostino fa costante riferimento a personaggi esistiti e vicende storiche che hanno attraversato il suo tempo. Risulta calato appieno nel proprio tempo, elemento che ad oggi è proprio della narrazione contemporanea». La modernità del pensiero agostiniano si riflette nell’opera di Bob Dylan, che ha saputo cogliere e reinterpretare questo approccio confessionale, trasformandolo in un linguaggio artistico. Il teologo è così un precursore di quella narrazione intima e al contempo universale che il cantautore americano ha tradotto in versi e musica.

Nel santo evocato da Dylan, Agostino appare come un predicatore che corre tra i quartieri poveri con “respiro infuocato” e un ambivalente mantello d’oro che potrebbe simboleggiare tanto la ricchezza interiore quanto gli eccessi mondani. La confessione del cantautore opera un ribaltamento prospettico: “Ho sognato di vedere Sant’Agostino / Vivo, con l’alito di fuoco / E ho sognato che ero tra quelli che lo misero a morte / Oh, mi svegliai con rabbia, così solo e terrorizzato / Ho messo le mie dita contro il vetro / E chinai il capo e piansi”. L’autore si identifica con i persecutori, esprimendo un senso di colpa irrisolto.
Questa tensione è quanto accomuna le confessioni dei due artisti. Se per il santo il cuore resta “inquieto finché non riposa in te”, il cantautore americano trasforma questo turbamento in principio creativo permanente. Non ambisce alla quiete della certezza, ma alla fecondità del dubbio.
Il recente film “A Complete Unknown” illumina questo aspetto della poetica dylaniana, mostrando come il giovane Robert Zimmerman abbia costruito la sua identità artistica attraverso mascheramenti e reinvenzioni continue. Il cantautore moltiplica in maniera consapevole le proprie identità, facendo della frammentazione una forma paradossale di autenticità.
La pellicola rivela un artista che, nonostante la fama, vive in solitudine, condizione che ricorda lo stato di isolamento descritto dal filosofo prima della conversione. Entrambi sperimentano il paradosso della comunicazione pubblica: quanto più sono acclamati – uno come retore, l’altro come portavoce generazionale – tanto più avvertono una distanza tra l’immagine proiettata e la verità interiore.
Il testo agostiniano è un’opera che integra narrazione, filosofia e preghiera; analogamente, le canzoni di Dylan trascendono il formato della ballata folk per diventare complesse esplorazioni poetiche. Entrambi trasformano l’autonarrazione in arte, utilizzando il racconto personale come veicolo di verità universali.
Il brano dedicato ad Agostino è stata riconosciuta da critici e appassionati come una delle più significative nella produzione del cantautore. In un sondaggio pubblicato dalla rivista Mojo nel 2005, è stata indicata come la sua migliore composizione. Bob Dylan l’ha eseguita in momenti chiave della sua carriera, come al Festival dell’Isola di Wight nel 1969, trasformandola in un lento valzer che amplificava la dimensione onirica del testo, una metamorfosi che sottolinea il carattere aperto della confessione artistica.
Ciò che unisce queste due figure non è una semplice analogia tra percorsi personali, ma una comune consapevolezza della complessità dell’io e della natura sfuggente della verità individuale. Le loro confessioni, pur nella diversità di forme e contesti, ricordano che raccontarsi significa confrontarsi con le proprie contraddizioni.
L’Agostino di Dylan non è il dottore delle certezze teologiche, ma una figura inquieta che continua a cercare. È l’emblema di una ricerca che non trova mai compimento, che diventa motore creativo. Un’irrequietezza che attraversa i secoli, dai manoscritti di Ippona alle ballate di Woodstock, creando quel dialogo necessario tra confessioni distanti nel tempo ma vicine nell’intento: la ricerca dell’autenticità che sempre sfugge e sempre chiama.