In principio il verbo si fece carne, poi la parola andò a un avatar. E venne ad abitare in mezzo a un cubicolo, al di là di una grata, nel cuore della Svizzera. Ai tempi dell’IA anche la fede ha il suo chatbot. Ha il volto di Cristo, sa contare fino a otto prima di resettarsi ed è stato battezzato in latino: Deus in Machina. Ha preso vita nel confessionale della cappella di San Pietro, a Lucerna, «ma non ascolta i peccati. Incentiva il dialogo spirituale dei fedeli, è lì per lasciare le persone da sole con Gesù, nella loro intimità». Marco Schmid, teologo, ha scelto la via più avanguardistica dell’incarnazione: provare ad addestrare ChatGpt sul large language model del messaggio di Dio. «Ovviamente si tratta di un esperimento», la premessa: «Non sostituisce il parroco ma serve al confronto e conforto della gente».
Anche questo Cristo virtuale è modellato sui tratti somatici della sua epoca. In un mondo in cui saper fare domande conta più di conoscere la risposta, le confessioni tradizionali vengono ribaltate. «Alla gente spetta solo chiedere, non parlare». Le curiosità spaziano tra tantissimi temi: «Cosa c’è dopo la morte?», «Perché si fa la guerra?», «Gesù, ma Dio esiste davvero?», sono solo alcuni dei quesiti registrati. E Gesù? «A volte ha risposto con un passo della Bibbia e ha chiesto “Tu che ne pensi?”. Quando lo abbiamo allenato, nel prompt abbiamo specificato di fare riferimento solo al Nuovo Testamento. E poi gli abbiamo insegnato a dialogare, però non va oltre le otto risposte», chiarisce Schmid. C’è persino chi cerca ganci spirituali, appigli di vita su un monitor. «Un signore è venuto dopo un lutto in famiglia: gli ha domandato come trovare consolazione dopo la grave perdita». Fino ad arrivare a chi solleva il velo dal tabù Lgbtqi+: «Ho un problema, sono un uomo e amo gli uomini, la Chiesa non è a favore del mio orientamento. Come comportarmi?».
Senza un parroco, anche lo stesso segreto confessionale svanisce: «Trattandosi di un esperimento, noi leggiamo le domande, siamo a conoscenza dei dialoghi. Analizziamo tutto e restiamo anche lì vicino per assistenza o per evitare che l’IA perda il controllo dando risposte strane. Ma non è mai successo». Spetta ai fedeli distinguere l’incontro con Deus in Machina dal momento del sacramento e dell’espiazione. Chi entra al di qua della griglia divisoria viene avvertito: i dati personali valgono più di una confidenza al prete. «Davanti all’ingresso c’è scritto che sarà tutto protocollato. E dopo una prima interazione con l’avatar, in cui dici una frase e selezioni la lingua, lo stesso Gesù ti avverte: “Non condividere informazioni riservate”. Poi se uno parla troppo e si fa prendere dal momento, è sua responsabilità». Ma l’interazione non resta fredda, distaccata, nonostante un reticolato separi le due voci: «Abbiamo realizzato che per molti è più facile parlare con un avatar che con una persona. Non si sentono giudicati».
L’avatar e il rispettivo modello linguistico sono stati progettati con l’Immersive Realities Research Lab dell’Università di Scienze Applicate di Lucerna e sperimentati insieme alla facoltà di Teologia Pastorale. «In realtà la collaborazione con il laboratorio nacque da un progetto con studenti israeliani e palestinesi ai tempi del Covid. Poi lo abbiamo esteso a tutti: si trattava di creare dei modelli 3D da esporre nella cappella». Da lì l’idea di passare a un’esperienza più interattiva. Che ascolta, traduce e poi parla. O meglio sussurra, in pieno stile sacrale: «La voce è quella della persona che l’ha creato. Ovviamente modificata attraverso strumenti audio per mascherarla e renderla più divina».
Lo hanno sperimentato in 900 persone, tra cui musulmani e turisti arrivati dall’Asia, dall’America. «Abbiamo avuto 250 recensioni e il 60% lo considera un’esperienza spirituale». C’è anche chi l’ha visto valicare il confine tra sacro e profano: «Per i cattolici il problema era che tutto si svolgesse nel confessionale, mentre non se la sono presa con la scelta di Gesù come avatar. Sono abituati a vederlo ovunque, per i protestanti però sembrava quasi blasfemo». Ma le velleità trascendentali della tecnologia vanno spesso in cortocircuito davanti ai dilemmi etici. Per il professore di etica Peter Kirchschläger «dovremmo fare attenzione quando si tratta di fede. La cura pastorale è un’area in cui gli esseri umani sono superiori alle macchine». A volte, invece, la qualità del tool non bilancia le aspettative: «Le risposte erano banali, ripetitive, trasudavano una saggezza da cliché», è stato il commento di un giornalista locale.
Lo «scontro tra progressisti e conservatori» resta un tran tran anche nel mondo ecclesiastico, «ma so che dal Vaticano hanno apprezzato», è la certezza di Schmid, prima di proiettarsi verso le prossime sfide del binomio religione-tecnologia. «C’è tanta gente che si fa aiutare dall’intelligenza artificiale, la usa per la psicoterapia. Anche in quel caso fa sentire meglio le persone, perché per i praticanti non può avere lo stesso effetto di speranza un avatar? Dobbiamo essere presenti, come Gesù nelle vite dei fedeli». È il verbo che cambia tempo. E passa al futuro.
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