Esclusiva

Aprile 24 2025.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 26 2025
Fischia il vento dei partigiani

La Resistenza attraverso i suoi brani più famosi. Non solo dolore, ma anche speranza e lotta per la libertà. Un traguardo conquistato da armi e canzoni

«Se ci coglie la crudele morte/dura vendetta verrà dal partigian/ormai sicura è già la dura sorte/del fascista vile e traditor». Così scriveva Felice Cascione nella sua celebre canzone Fischia il vento, l’inno partigiano per antonomasia. Il testo viene composto due giorni prima del Natale del 1943, ad Albenga, in Liguria. È il brano più cantato dai combattenti italiani, almeno fino agli anni Sessanta, quando sarà surclassato da Bella ciao, nata dopo la guerra di liberazione, a dispetto di quanto pensano in molti. «Ma tutto questo Felice non lo sa, braccato dai fascisti, nel tentativo di recuperare documenti compromettenti, viene ferito a una gamba e poi finito con un colpo alla testa», scrive Alessio Lega nel libro La resistenza in 100 canti.

«L’intuizione è che le canzoni nate in quei venti mesi di lotta partigiana ci permettano di vedere e sentire la Resistenza con gli occhi e le orecchie dei giovani che l’hanno fatta. Più di immagini, video e letteratura, la musica ci dona un’esperienza di memoria collettiva nell’istante presente», dichiara l’autore.

Il 25 aprile 1945 fu un traguardo conquistato da due protagoniste essenziali: armi e canzoni. Le une non esistono senza le altre, perché non c’è rivoluzione vincente che non abbia avuto bisogno di fucili da imbracciare – per difendersi dal nemico – e canti da intonare a squarciagola, per piangere i compagni appena perduti. Eppure, Il bersagliere ha cento penne finisce con quattro versi che non lasciano scampo: «Quando poi ferito cade/non piangetelo dentro al cuore/perché se libero un uomo muore/che cosa importa di morir». Che senso ha restare in vita se non si ha la libertà? Ed ecco che il ribelle rinuncia all’obbedienza militare e combatte senza simboli: non indossa cento penne e nemmeno una sola, come gli alpini, recupera la sua coscienza e fa della lotta all’oppressione l’unico vero motivo per continuare a tenere la testa alta.

Secondo Lega, gli obiettivi cui puntavano quei soldati sono ancora molto lontani: «L’integrità dei popoli è continuamente violata, i nemici della civiltà sono più che mai fra noi (direi persino al governo), lo sfruttamento nei confronti della classe lavoratrice è peggiorato, con l’erosione dei diritti conquistati con le lotte del dopoguerra».

Ma i brani di questo periodo non raccontano solo storie di sangue e tristezza. Ad esempio, anche se Bella ciao può sembrare struggente, in realtà racchiude dentro di sé molta più gioia che dolore. «Ritmica e vivace, si getta nelle battaglie del presente con rinnovata energia, con sempiterna fame di libertà. Come un messaggero armato di pace», riporta lo scrittore nel libro. Anche E la mula, in dialetto triestino, parla di cosa accadrà quando la guerra finirà, assaporando già un anticipato clima di festa: «E la vita che viveremo noi/dovarà esser libera e bela…/casa se va».

«Di una patria tradita vilmente/da un ventennio di lutti e d’orror/liberata sarà finalmente/dal tedesco tiranno e invasor». Scritta da ignoto e composta da Cesare Cesarini, queste parole testimoniano la fine di un conflitto senza dimenticare le atrocità commesse da entrambi le parti, vincitori e vinti. La Festa della Liberazione è stata indetta per ricordare e celebrare i partigiani che ottanta anni fa scelsero di opporsi al regime, salvando l’Italia dall’occupazione nazifascista. Una mattina, si sono svegliati e – trovando l’invasor – gli hanno gridato contro: «Arrendersi o perire!».

Leggi questo articolo anche nel nostro ultimo periodico dedicato alla Resistenza