«Finora le misure adottate dall’Italia sono state all’acqua di rose rispetto a quelle cinesi. Adesso mi pare che si faccia sul serio». La voce arriva flebile, un po’ disturbata ma ferma. Giorgio Parisi parla in modo deciso, mostra consapevolezza di ciò che dice. Il giorno dopo la decisione del governo di chiudere locali e negozi fino al 25 marzo, il professore si dice soddisfatto: «L’istituzione di una zona protetta estesa a tutto il territorio nazionale era un passo avanti ma insufficiente. Ora invece ci siamo. Forse gli ultra 60enni dovrebbero stare a casa dal lavoro – sono i soggetti più a rischio e riempiono le sale di rianimazione – ma le ultime misure vanno nella direzione giusta».
Il professor Parisi è un fisico di fama mondiale. Presidente dell’Accademia dei Lincei e docente di Teorie quantistiche alla Sapienza di Roma, è attivo nel campo della meccanica statistica e della teoria dei campi. Nei suoi 71 anni di vita ha lavorato al CNR, all’Istituto Nazionale di Fisica e al CERN di Ginevra. Nel 2010 ha ricevuto la medaglia Max Planck, uno dei più ambiti riconoscimenti in ambito scientifico. Più di così c’è solo il Nobel. Zeta lo ha raggiunto al telefono nel pieno delle sue ricerche. Sono giorni di lavoro frenetico ma Parisi non si nega per spiegazioni e commenti.
«Capisco che la questione sia delicata, ma un approccio razionale e scientifico alla realtà non deve mai venir meno. Le analisi si fondano su dati ben precisi» ed è sui dati che Parisi basa le sue affermazioni e da essi trae le conclusioni. «Ora tocca all’Italia ma il virus ha già messo alla prova altri paesi, alcuni dei quali ne stanno progressivamente uscendo. È fondamentale capire come hanno agito». Il riferimento è in primis alla Cina, il luogo in cui tutto è cominciato; il paese che, nel bene e nel male, ora indica la strada per fermare l’epidemia.
«Uno dei maggiori problemi, quando si fanno analisi e comparazioni, è chiarire e condividere con gli interlocutori l’affidabilità del dato. Non stiamo parlando di modelli matematici astratti ma di grafici che intendono rappresentare la realtà». Così, pesando ogni parola per fare più chiarezza possibile, Giorgio Parisi introduce l’analisi – realizzato con Luca Foresti, ceo di CentroMedico Santagostino – che mette a confronto Italia e Cina mostrando come, per numero di decessi, il Covid-19 stia seguendo uno sviluppo simile nei due paesi. «La situazione italiana ha un andamento affine a quello della Cina ma con 37 giorni di ritardo. Il numero di morti del 7 marzo in Italia, ad esempio, è simile a quello in Cina del 30 gennaio, ma a partire dall’8 marzo la crescita cinese incomincia a rallentare mentre quella italiana prosegue».
«Non abbiamo paragonato il numero totale dei contagi perché non è un dato affidabile – spiega Parisi – in quanto dipende dal numero dei test fatti. In Italia facciamo tamponi solo a chi manifesta già sintomi e ha avuto contatti con soggetti positivi, negli altri paesi non è per forza così. Al 4 marzo avevamo fatto circa 60 mila test, mentre la Corea del Sud 130 mila. Ed ecco spiegato il basso tasso di letalità coreano: più è grande il denominatore – il numero dei casi osservati – più piccolo sarà il risultato della divisione. Non è efficace neppure confrontare quelli che in Cina vengono chiamati casi critici e in Italia dovrebbero corrispondere a chi è in terapia intensiva, perché non esiste un criterio comune per identificarli».
«Facciamo un altro esempio per chiarire la questione: confrontiamo il tasso di mortalità grezzo di Lombardia e Veneto e spieghiamo perché sono diversi (ad oggi in Lombardia ci sono 468 morti su quasi 7 mila contagiati, in Veneto 26 su più di 800 casi positivi, ndr). Se in Veneto sono state testate in media ventuno persone a contatto con ciascun positivo, in Lombardia soltanto quattro. Qui è maggiore il numero assoluto dei test perché ci sono più casi ma, in proporzione, sono stati fatti meno tamponi. Ciò significa che il tasso di mortalità lombardo è più alto: probabilmente non sono stati registrati il 60% dei positivi. Per queste ragioni Foresti ed io abbiamo preso in considerazione il numero dei decessi e non il numero dei contagi, nel confronto Italia-Cina. È un dato più affidabile. A chi in questo momento si ammala di polmonite atipica viene certamente fatto il test per il Covid-19».
Nel secondo grafico l’Italia, che ha 60 milioni di abitanti, è paragonata alla provincia cinese di Hubei (58 milioni di abitanti – città principale Wuhan), in cui si sono concentrati la maggior parte dei casi e dei morti. Le curve dei decessi in Italia e nell’Hubei si sovrappongono (con 36 giorni di anticipo per l’Hubei) fino al momento in cui la Cina non ha attivato severissime misure di contenimento del virus. A quel punto la crescita esponenziale del contagio ha iniziato a rallentare. In Italia fino all’8 marzo il numero dei decessi non accenna a diminuire – sembra che le misure prese fino ad allora non abbiano avuto molta efficacia – e il grafico mostra la proiezione del peggiore scenario possibile: i morti, senza misure di contenimento adeguate, avrebbero toccato i tremila in pochi giorni.
Il professor Parisi prende tempo, riordina i pensieri. Non mostra timore nel tradurre il suo studio in soluzioni concrete. «Per ottenere risultati efficaci la Cina ha adottato misure pesanti: le persone sono state confinate in casa e si è consentito di fare la spesa a un solo membro per famiglia». Poi, con decisione, prosegue: «Soprattutto è stata decisiva la scelta di bloccare i trasporti e la produzione industriale». In Italia non siamo ancora a questo punto, la situazione economica potrebbe non consentire di prendere una decisione tanto drastica.
Parisi trae un profondo respiro prima di rispondere all’obiezione: «Le priorità in questo momento sono altre, non certo l’economia. Bene si è fatto a chiudere locali e negozi. L’estensione della zona rossa decisa il 9 marzo poteva servire a rallentare il contagio ma non a fermarne la crescita esponenziale, e non seguiva l’esempio della Cina. L’importante è che tutti capiscano la gravità della situazione: se ognuno interpreta i divieti come vuole non ci resta che prepararci al peggio».
«Non voglio fare l’uccello del malaugurio, non mi chieda lo scenario peggiore». Messo di fronte alla grande domanda – cosa accadrà nei prossimi giorni e quanto funzioneranno le nuove misure – il professore non si nasconde ma resta molto cauto nel fare previsioni. «La scorsa settimana pensavo che sarebbe stato un miracolo se in Italia i morti si fossero fermati a tremila, ma nel frattempo i dati non sono buoni. Ieri ci sono stati 168 morti e ancora non siamo all’apice dell’epidemia. La matematica parla chiaro: temo che saranno molti di più».
E allora cosa dobbiamo sperare, a cosa possiamo aggrapparci? Se non tutto dipende da noi, molto è quello che possiamo fare: «L’Italia ha il dovere morale, l’obbligo e la capacità di rallentare l’epidemia. Spero che le nuove misure restrittive si dimostrino efficaci in tempi brevi – continua Parisi –. Il tempo di incubazione del virus è di 5-6 giorni: se la chiusura degli esercizi commerciali avrà effetto, vedremo un rallentamento sui casi all’inizio della prossima settimana e un rallentamento sui morti tra una decina di giorni». Solo a quel punto ci saranno previsioni affidabili sull’evoluzione del virus.
Gli studi di Parisi, professore ordinario a 33 anni, hanno influenzato anche le scienze cognitive, la finanza e le scienze sociali. Se c’è da schierarsi lo fa volentieri, rimane pacato ma non si tira indietro. Misure di contenimento come quelle cinesi sono compatibili con un sistema democratico? Una domanda inusuale se rivolta a uno scienziato, ma lui non fa una piega: «Il pericolo va mostrato e le alternative spiegate ai cittadini, ma non dobbiamo sottovalutare la democrazia. Disponiamo di forze di cui ci siamo dimenticati. Le democrazie hanno stretto le fila e sconfitto il nazifascismo con uno sforzo coordinato pesantissimo – scandisce Parisi –. Furono cinque anni di lotta: ora ci preoccupa sospendere le attività e stare chiusi in casa per un solo mese?».
Il professore parla svelto e poi si ferma. Ragiona a voce alta, e il pensiero torna fuori dall’Italia: «Negli altri paesi europei il progresso del contagio è simile al nostro, ma con qualche giorno di ritardo. Servirebbe una risposta forte a livello europeo, con sforzi differenziati a seconda delle situazioni. Ma dal punto di vista operativo l’Unione europea non esiste: non siamo la Cina, non possiamo mandare 20 mila medici dalla Polonia alla Lombardia». La via da seguire è quella del coordinamento degli interventi, su cui l’Europa è quasi ferma: «La diffusione del virus e la grave crisi che è alle porte spaventano tutti, sono problemi che vanno affrontati assieme. Ora dobbiamo uscirne senza avere i lazzaretti per strada, poi penseremo ai danni all’economia e alla nostra vita sociale».