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Esclusiva

Aprile 6 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Maggio 3 2020
Giovanni Verga, Quelli del colèra

«Il colèra mieteva la povera gente», la novella di Verga racconta una pestilenza, una reazione e un pregiudizio che nasce dalla paura

Il mondo intorno a noi sta cambiando, da qualche giorno a questa parte lo ha già fatto. Molte delle attività che consideravamo scontate, naturali, di fatto non lo sono più. Sono in pausa. Le lunghe cene con gli amici, i concerti, gli aperitivi. Ce ne rimangono però altre, e non meno degne. Ci sono i libri, che in tempi come questi offrono oltre che sollievo, anche una possibilità di evasione. Ci si immerge, lettera dopo lettera, frase dopo frase, e pian piano da una pagina in bianco e nero possiamo perderci in boschi, praterie, piazze e città esotiche dove non siamo mai stati prima. Una volta ancora, in soccorso nei momenti di difficoltà viene la cultura. #letteraturedaquarantena 


Senza Giovanni Verga non si sarebbe sviluppato nel nostro paese il romanzo moderno. Per la prima volta nella storia del romanzo italiano si abbandona un atteggiamento di dominio ideologico e giudizio dall’alto. L’impersonalità verghiana comporta infatti una radicale rinuncia: l’autore non manifesta più direttamente i propri “sentimenti” e assume invece l’ottica narrativa, l’orizzonte culturale, il linguaggio dei suoi stessi personaggi.

E ciò vale anche per le novelle. Romanziere ma già prima novelliere, schivo e malinconico, Verga lavorerà alle sue novelle fino a due anni prima di morire. Quelli del colèra è infatti una novella della maturità, contenuta nella raccolta Vagabondaggio del 1887, quando l’autore aveva 47 anni e già una certa notorietà, ma scarso successo, avendo già pubblicato I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo.

Servendosi di una prospettiva dal basso, in questo racconto tra i meno conosciuti, Verga restituisce i ritratti di due villaggi impauriti dall’epidemia di colera che effettivamente colpì il Regno delle Due Sicilie nel 1837.  La reazione di due comunità paesane nella Sicilia orientale, in cui la folla, spaventata dal diffondersi dell’epidemia, reagisce scegliendo come capro espiatorio rispettivamente un gruppo di commedianti e una famiglia di zingari.

Dopo una parte iniziale caratterizzata da una carrellata su dei presunti casi di contagio, la novella si sofferma sui fatti di San Martino, dove la morte di alcuni paesani inferocisce la folla che si scaglia nottetempo contro dei commedianti di passaggio. Poi si racconta di quanto avvenuto a Miraglia, dove a farne le spese sono ancora una volta dei forestieri, degli «zingari» che si portano dietro «tutta la loro casa in un carretto sconquassato». In quest’ultimo caso, l’aggressione è talmente violenta che a perdere la vita sarà persino una giovane madre (una «bella bruna») intenta a proteggere il figlioletto dalle scuri dei paesani tentando di schivarle a mani nude e «insanguinate».

Un aspetto curioso è che la novella, di straordinaria drammaticità, era apparsa prima nel 1884 nella raccolta Auxilium e trovava la sua conclusione nella scena del capocomico che, «pallido e stravolto», assalito dalla folla, «voleva buttarsi sul fuoco per spegnerlo colle sue mani», in preda alla disperazione, urlando che così gli stavano togliendo «il suo pane». La famiglia dei commedianti scampa alla strage e nella ressa emergono anche delle voci fuori dal coro, voci di anime buone: «No! Non li ammazzate! Vediamo prima se sono innocenti, se portano colèra!».

Il finale con la strage mancata non ebbe evidentemente a soddisfare Verga che pensò di aggiungervi la vicenda di Miraglia al momento di inserire la novella nella raccolta Vagabondaggio tre anni dopo. La vita risparmiata ai commedianti appariva infatti poco credibile. E lo si capisce dalla frase che introduce questa nuova e seconda parte: «Dove avevano saputo far le cose bene era stato a Miraglia, un paesetto mangiato dal colera e dalla fame». Lì le cose erano state fatte meglio perché la famiglia di zingari era stata brutalmente uccisa dai paesani. E così l’uomo «calderaio», sua moglie che «diceva la buona ventura» e la figlia – la «bella bruna» di prima – perdono la vita poiché sospettati di essere i responsabili del contagio.

Inoltre la novella in Auxilium si intitolava Untori. Il passaggio dalla parola «untori» al sintagma «quelli del colera» va nella direzione di un aumento di ambiguità. Se è chiaro chi sia un untore, meno chiaro è chi siano «quelli del colera». Cambiando il titolo Verga può giocare con l’orizzonte d’attesa del lettore. «Quelli del colera» non sono, come potrebbe suggerire l’incipit della novella («Il colèra mieteva la povera gente colla falce»), le vittime del contagio, ma sono le vittime del pregiudizio collettivo.

La figura dell’escluso, del disadattato sociale, dell’intruso in una nuova classe ha sempre in Verga un pathos profondo che rivela non solo un’attenzione conoscitiva ma un processo di identificazione, di cui occorre ed è possibile ritrovare le ragioni storiche. Nel rispecchiamento c’è infatti tutto il dramma degli artisti, sempre più isolati nella società di fine Ottocento, e di una generazione – quella di Verga – formatasi nel clima romantico che ne incoraggiava il protagonismo e trovatasi invece a vivere nella delusione dell’Italia postunitaria. Influisce inoltre la stessa provenienza sociale di Verga, appartenente a un ceto (la borghesia agraria), ormai relegato ai margini del progresso.

A vagabondare, come il titolo della raccolta suggerisce, a spostarsi per il mondo in questa novella sono degli sradicati, degli indigenti che restano, loro malgrado, vittime dei pregiudizi delle comunità paesane. La giustizia della folla, quella dei compaesani è unanime nella condanna. La voce narrante, anonima, della novella, si identifica con i colpevoli di pestaggi e omicidi, eppure a cinquant’anni di distanza – gli anni che separano la finzione letteraria dal colera del 1837 – riaffiora il senso di colpa per aver commesso un eccidio efferato di vittime innocenti.

La novella si conclude infatti con gli incubi di Vito Sgarra, uno degli uomini della caccia all’untore di Miraglia, che lo tormentano ancora, dopo cinquant’anni: «E ancora, dopo cinquant’anni, Vito Sgarra, che aveva menato il primo colpo, vede in sogno quelle mani nere e sanguinose che brancicano nel buio». Spazio bianco. «Però, se erano davvero innocenti, perché la vecchia, che diceva la buona ventura, non aveva previsto come andava a finire?».