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Esclusiva

Aprile 24 2020
Il mondo dietro a un vestito

La Fashion Revolution Week ogni anno ricorda le vittime del crollo del Rana Plaza nella capitale del Bangladesh. Quel giorno di sette anni fa morirono più di mille operai impegnati nelle fabbriche dei vestiti

Il 24 aprile è una data di commemorazione. Alle 8.45 di mattina di quel giorno di sette anni fa, il Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, un sub-distretto di Dhaka, capitale del Bangladesh. Le operazioni di soccorso e di ricerca finirono il 13 maggio: 1.129 morti e 2.515 feriti estratti dalle macerie.

Quel giorno è nata Fashion Revolution, organizzazione no profit che si batte per un’industria della moda equa, sicura e rispettosa dell’ambiente e dei lavoratori. Ogni anno la Fashion Revolution Week, che ricade nell’anniversario della tragedia, ha lo scopo di interrogarsi sui progressi fatti dal settore. Lo scopo di questi sei giorni, dal 20 al 26 aprile, è chiedere al comparto industriale della moda una maggior trasparenza e una regolare sostenibilità nelle catene produttive.

“Chi ha fatto i miei vestiti?” è lo slogan lanciato quest’anno. Tutti sono stati incoraggiati a porsi questa domanda, sui social inizia a girare #whomademyclothes?, affinché i produttori e le case di moda rispondano #imadeyourclothes, proprio per dimostrare la trasparenza lungo tutta la catena di produzione. La Fashion Revolution Week vuole convincere i consumatori a interrogarsi prima di acquistare ogni nuovo capo d’abbigliamento, dimostrando che al “fast fashion” esistono alternative, come il noleggio, lo scambio con gli altri o l’usato ed esistono aziende trasparenti. Sebbene il coronavirus abbia cancellato molti eventi previsti per la settimana, sui social Fashion Revolution è più attiva che mai.

Il crollo del Rana Plaza è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia. «Quella mattina di sette anni fa su tutti i canali della televisione si vedeva il Rana Plaza sgretolato. Soldati, poliziotti, vigili del fuoco e altri volontari corsero sul posto, ma ci vollero più o meno due ore affinché arrivassero rinforzi per iniziare a recuperare i corpi. Era questo il tempo che ci si metteva dal centro di Dhaka per arrivare a Savar, di fronte all’enorme edificio». Mainul Khan, giornalista bangladese, come tutti i suoi colleghi, ha ben vivo nella memoria il ricordo di quel giorno.

«In quel momento non lavoravo nella redazione di nessun giornale perché ero insegnante di giornalismo a tempo pieno, ma quando accesi la tv mi accorsi subito della dimensione della tragedia. Qualche settimana prima mi era capitato di andare al Rana Plaza per lavoro, conoscevo il palazzo, era gigantesco e adesso era ridotto in frantumi. Gli otto piani dell’edificio erano diventati un mucchio di macerie corrispondente più o meno a un solo piano».

Il Rana Plaza, nome che viene dal suo proprietario Sohel Rana, oggi in prigione, membro della Lega Popolare Bengalese, il partito monarchico e nazionalista del paese, ospitava otto fabbriche tessili che impiegavano circa 5.000 persone, diversi negozi e al piano terra una banca. Tra i marchi che quelle fabbriche servivano Auchan, Benetton, El Corte Inglés, Inditex (Zara, Bershka, Pull and Bear, Oysho, Stradivarius), Mango, Primark, per citare i più noti. Le etichette ritrovate tra i calcinacci in molti casi sono state la prova che ha fatto ammettere alle aziende il loro coinvolgimento.

Il mondo dietro a un vestito

Due giorni prima del crollo i media del Bangladesh avevano riferito che da alcune ispezioni era emerso che il Rana Plaza non era sicuro, in quei muri vi erano delle crepe evidenti. I negozi ai primi piani e la banca vennero subito chiusi. Ma i proprietari delle fabbriche di abbigliamento dei piani superiori ordinarono ai dipendenti di recarsi lo stesso in fabbrica a lavorare, nonostante fossero a conoscenza dei rischi per la sicurezza. Operaie hanno confermato in modo anonimo di essere state ricattate, se non si fossero presentate avrebbero perso il lavoro. Molte di loro lo hanno perso lo stesso, alcune insieme alla vita, altre insieme a una parte del corpo.

«Ricordare quel giorno è difficile. Molti miei colleghi che erano lì sul posto sono rimasti traumatizzati, si sono trovati occhi negli occhi con persone che gridavano aiuto, hanno sentito le urla di chi si è dovuto privare degli arti per sopravvivere. Ogni volta che devono ricordare il loro viso si deforma, sentono ancora il dolore di quel giorno. Il dolore dei parenti dei morti, delle persone rimaste offese per sempre e anche di chi ha prestato soccorso e ha cercato di riportare quello che era successo».

«Fu anche una grande sfida per i media, ci sarebbe voluto un giornale di sole prime pagine per coprire una notizia simile e un giornale costruito solo sulle fotografie. Da quelle macerie mille storie stavano venendo fuori, quelle delle vittime, operai sfruttati, quelle dei piani superiori dell’edificio costruiti abusivamente, quelle dei ricatti dei datori di lavoro del settore tessile».

Il capo della Protezione Civile bengalese, infatti, aveva riferito che i quattro piani superiori erano stati costruiti senza permesso e l’architetto del Rana Plaza aggiunse che il palazzo non era stato progettato per ospitare delle fabbriche, ma solo negozi e uffici, sottolineando come la struttura non fosse abbastanza resistente per sopportare il peso e le vibrazioni dei macchinari pesanti.

Il mondo dietro a un vestito

«Gli ospedali avevano pochi posti disponibili quindi furono allestite anche altre strutture per dare assistenza e cure a tutti. Nei pressi del Rana Plaza c’è una piccola scuola. Lì in molti sono stati ricoverati durante i diciannove giorni impiegati per terminare le operazioni di soccorso. Ho parlato con tante persone passate per quella scuola, sia con alcune vittime, sia con alcuni miei colleghi che avevano avuto il coraggio di entrarci. L’odore che c’era dentro e i volti delle persone ferite gli tornano in mente appena si nomina il Rana Plaza. Alcuni dopo essere usciti da lì non hanno dormito né mangiato per giorni».

Dopo il crollo alcune delle aziende coinvolte hanno creato fondi di risarcimento per i lavoratori, ma non tutte, e molti operai, anche a distanza di anni, non avevano ancora ricevuto nulla. «Un giorno un mio collega e io, parlando con una donna rimasta senza una mano, abbiamo scoperto che non aveva ricevuto alcun compenso. E come lei molti altri continuano a vivere in depressione e povertà, hanno perso l’unico lavoro che avevano e non hanno ricevuto neanche i soldi che gli erano stati promessi».

La Campagna Abiti Puliti, subito dopo il crollo, diede inizio a una raccolta fondi, il Rana Plaza Donors Trust Fund, chiedendo ai marchi internazionali coinvolti di risarcire le vittime di quel disastro, con l’obiettivo di arrivare a 30 milioni di dollari. Nel marzo del 2014, le griffe che si erano attivate per finanziare questo fondo di solidarietà erano 7 su 29. Dopo due anni il Fondo aveva raccolto 2,4 milioni e solo a giugno di quell’anno una donazione anonima permise di raggiungere la cifra prefissata.

Il 2015 fu anche l’anno in cui, il 21 dicembre, la giustizia del Bangladesh chiamò a giudizio 41 persone. Il processo è ancora in corso. La posizione più grave è quella del proprietario Sohel Rana, l’unico che si trova in prigione anche oggi e che rischia l’ergastolo. Anche le altre persone sono in attesa di giudizio, ma di alcune si sono perse le tracce. «Gli attivisti vogliono che i responsabili paghino, ma hanno paura che il processo non finirà né presto né a sfavore di Sohel Rana. I media cercano di seguire tutte le udienze, ma passano gli anni e l’attenzione decresce. Negli ultimi due anni ho visto notizie riguardo al Rana Plaza due volte l’anno, soprattutto per commemorare».

Il mondo dietro a un vestito

Oggi a Savar e nei dintorni le fabbriche tessili del territorio sono oggetto di periodiche ispezioni. «Ma mi chiedo se sia abbastanza per consentire agli operai di lavorare in sicurezza. Chi si prenderà cura di loro? Chi può dire con certezza che non ci saranno altri incidenti? Le fabbriche sono piccole per il numero di persone che ci lavora, molte ospitano macchinari pesanti in strutture non adatte, costruite con materiali di scarsa qualità».

Il Bangladesh è il secondo esportatore di capi di abbigliamento al mondo, dopo la Cina, ma l’industria è afflitta dalle preoccupazioni per la sicurezza ed è stata protagonista di rabbiose proteste per i salari. Un’industria cresciuta in fretta, negli ultimi quindici anni, in particolare grazie all’aumento dei salari in Cina che hanno spinto molte aziende a cercare costi più bassi altrove. Il Bangladesh ha i costi di manodopera più bassi al mondo, con il salario minimo per i lavoratori nel settore tessile fissato a circa 34 euro al mese. Il settore è quindi fondamentale per la debole economia del paese, con esportazioni che generano un fatturato superiore ai 25 miliardi.

Il mondo dietro a un vestito

Oggi tra gli alti palazzi di Savar c’è uno spazio vuoto. Dove si ergeva l’imponente Rana Plaza adesso ci sono terra e fango insieme alla polvere ancora viva di quelle macerie e un acquitrino profondo mezzo metro dove i bambini vanno a giocare.

«L’ultima volta che ci sono andato è stato due anni fa. Ero lì e stavo camminando da solo. Un bambino mi venne incontro: vuoi vedere le ossa? Ero sorpreso, ho esclamato “no”. Certo che volevo vederle, ma non volevo fosse un bambino a mostrarmele. Gli chiesi dove potevo trovarle. Il ragazzino, avrà avuto 9 o 10 anni, saltò dentro la pozza e immediatamente tirò fuori l’osso di una gamba. Ero disorientato, erano passati cinque anni. Sono ancora lì? Sì sì, se vai dove c’era il retro del palazzo, dove quel giorno hanno buttato i mucchi di calcinacci, trovi ancora le ossa».