Era la sera del 1° aprile 1948 e nell’aria si respirava la primavera. Nella piazza di Camporeale, un piccolo comune fra Trapani e Palermo, i contadini erano a discutere delle elezioni politiche del 18 aprile e di come riscattarsi da “lorsignori”, i padroni del feudo. Anche Calogero Cangelosi quella sera ne aveva parlato a lungo alla Camera del Lavoro, assieme ai compagni Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli. Guardò l’orologio e vide che si era fatto tardi, così decise di tornare a casa. I suoi compagni, per proteggerlo, si offrirono di accompagnarlo. Quasi arrivati, «si udì un crepitare di mitra. Decine di colpi, sparati in rapida successione ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo», racconta la nipote Sonia Grechi. Tutti caddero, ma morì solo Calogero.
Oggi, settantadue anni dopo, è la nipote ex dirigente Filcams della Cgil a Grosseto a tenerne viva la memoria: «Mio nonno si faceva consegnare del denaro dalla nonna e, con questo, comprava le preziose sigarette donandole a chi era meno fortunato di lui. Troppi lo erano». Calogero Cangelosi fu impegnato al suo tempo nel riconoscimento dei “decreti Gullo”. Strumenti che «avrebbero permesso di smarcare dalla povertà un’ampia fetta di popolazione, restituendole la dignità perduta», spiega Sonia.
I decreti Gullo furono il primo passo per abolire la mezzadria, una forma di contratto agrario obsoleto, col quale proprietario e coltivatore di un campo si dividevano prodotti e utili. Un trattamento spesso impari, che sarebbe stato vietato anni dopo, con la legge n. 756 del 1964. «La determinazione di mio nonno, continua la nipote, lo portò ad uno scontro violento con don Serafino Sciortino, latifondista di Camporeale di cui lui era mezzadro».
Calogero non era
uno di quelli che aspettano la legge per smascherare l’ingiustizia. Segretario
del Partito Socialista locale e di Federterra, oltre che della Camera del Lavoro di Camporeale, in
quei giorni fu invitato più volte a farsi da parte. «Sciortino non avrebbe mai
permesso quanto i decreti indicavano e, per questo, propose a nonno Calogero
una “buonuscita”: un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti d’America per
lui e la sua famiglia, accompagnato da un bonus. La proposta, però, venne
fermamente respinta.
Nonno Calogero non si fece dissuadere e restò fermo nelle sue intenzioni», dice
Sonia.
Il 28 marzo 1948 Sciortino lo invitò a casa sua per discutere delle percentuali previste dalle nuove norme. I decreti Gullo avrebbero stravolto le abitudini dei grossi proprietari terrieri siciliani come lui, riconoscendo al coltivatore il 60% del raccolto. A don Serafino non stava bene. Quella sera Cangelosi fu rapito dal capomafia Vanni Sacco e dai suoi picciotti, «con l’intenzione di ucciderlo», spiega la nipote. Ma neanche allora si arrese, o meglio, non lo fecero i suoi compagni che in pochi giorni, armati di lupare, lo liberarono.
La Sicilia della metà del ‘900 era un posto dove ognuno combatteva con le armi che aveva, e la mafia ne aveva più di tutti. La sera del 1° aprile 1948 erano tre mesi esatti dall’entrata in vigore della Costituzione. Calogero aveva trascorso parecchie ore alla Camera del Lavoro per darne voce, per metterne in pratica la sostanza dell’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Quella sera, arrivati nella parte alta di via Minghetti, che faceva angolo con via Perosi, lui e i quattro compagni vennero travolti da una serie di colpi di mitra.
Due rimasero illesi, altri due gravemente feriti, ma Calogero cadde all’istante e con lui le speranze di tutti i contadini del circondario. Quando morì era sposato con Francesca Serafino e aveva quattro figli, Francesca di 11 anni, Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appena 2 mesi. La primogenita ha raccontato negli anni di un uomo che «quando tornava a casa, la sera, si avvicinava sempre ai lettini e rimboccava le coperte con tanta tenerezza».
Quando il giudice arrivò da Alcamo, quattro giorno dopo, diede luogo a un’indagine contro ignoti, che tali rimasero per sempre. «Nel mentre mio marito si era gonfiato tutto, fino a diventare irriconoscibile», avrebbe poi raccontato la moglie Francesca. Da allora Cangelosi non sarà mai riconosciuto vittima di mafia. In quegli anni fu il trentaseiesimo sindacalista assassinato dalla criminalità, subito dopo Placido Rizzotto ed Epifanio Li Puma. Ai suoi funerali presenziò anche Pietro Nenni, il segretario nazionale del Partito Socialista, oltre che contadini, compagni e cittadini. In seguito, la famiglia di Cangelosi ebbe notevoli difficoltà economiche e dopo dodici anni, nel 1960, si trasferì a Grosseto dove tuttora risiede.
Nel 1998 il Comune di Camporeale gli ha dedicato una piazza e ogni anno lo ricorda assieme alla Cgil con una cerimonia a cui partecipano anche gli alunni delle scuole. Ma il solo ricordo può bastare? Per concretizzarsi, dice Enza Rando, vicepresidente di Libera, il processo di crescita e maturità ha bisogno dei giusti anticorpi: «Bisogna stare dalla parte della nostra Costituzione e onorare le nostre partigiane e i nostri partigiani, questa, a mio parere, è la prima battaglia chiara per lottare le vecchie e le nuove mafie. La nostra Resistenza».
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