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Esclusiva

Maggio 1 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Maggio 2 2020
Cosimo Cristina: «senza peli sulla lingua»

Il venticinquenne siciliano è stato il primo giornalista vittima della mafia, ucciso nel 1960. Il suo caso, ancora oggi, è archiviato come suicidio

Sono le 15:30 del 5 maggio 1960 quando viene trovato il corpo di un uomo al centro dei binari del treno. Ha la pancia in su, le spalle rivolte al suo paese natìo, i piedi puntati verso la vicina Palermo. «È Cosimo Cristina! Il giornalista, quello con la barbetta». A Termini Imerese le voci iniziano subito a circolare. Il suo orologio da polso è fermo alle 11:53, «presumibilmente di ieri sera- scrivono i quotidiani locali- quando transitò l’ultimo treno merci diretto a Palermo». Ora in cui, secondo la polizia e i giornali, Cosimo si sarebbe gettato contro quel treno.

«Il Cristina si era ritrovato recentemente al centro di una clamorosa vicenda. Per aver indicato quali presunti capi della banda dei “Monaci di Mazzarino” un avvocato e un medico dello stesso paese era stato querelato per diffamazione. Inoltre era stato licenziato due giorni prima dalla società di caffè per cui lavorava». Secondo la polizia e la stampa, Cosimo Cristina si era suicidato perché non riusciva più a reggere tutto questo lasciando un messaggio d’addio.

Cosimo Cristina: «senza peli sulla lingua»

«Scusami per il gesto che sto per fare. Se vedi Enza gli dai un ultimo bacio per me», chiede al suo amico e collega Giovanni Cappuzzo. Dall’altra parte del foglio giallo, invece, scrive un messaggio per la sua fidanzata, di cui il nipote Roberto raccoglie ricordi e lettere nel suo libro Vi racconto il mio Cosimo Cristina. «Scusami se ieri ti ho fatto piangere. Avrei preferito che tu mi seguissi, così non saresti stata di nessun’altro». Non venne mai effettuata una perizia calligrafica, nonostante i dubbi sollevati da Enza che con il fidanzato aveva scambiato centinaia di lettere nel corso della loro storia. Il giorno dopo non venne celebrato nessun funerale, per la chiesa il corpo di un morto suicida non aveva il permesso di ricevere un’ultima preghiera.

Cosimo Cristina era un ragazzo coraggioso e dal sorriso pieno, sempre impeccabile nel suo cravattino. È stato uno dei primi giornalisti a parlare di mafia in Sicilia. A soli 21 anni divenne corrispondente per l’Ora di Palermo, e a 24 anni fondò il suo giornale Prospettive Siciliane «con spirito di assoluta obiettività, in piena indipendenza da partiti e uomini politici, ci proponiamo di trattare e discutere tutti i problemi interessanti dell’Isola, avendo come nostro motto: senza peli sulla lingua». Nell’editoriale che accompagna il primo numero del suo periodico racconta tutta l’essenza del suo giornalismo. Articoli dai titoli semplice e forti in cui il giornalista non aveva paura di denunciare ogni «violazione di onestà amministrativa e politica» e che con concludeva, sempre, con le sue iniziali: Co.Cri.

«Ucciso dalla mafia Agostino Tripi?». È questo il titolo che lo porterà a quel 5 maggio del 1960. Cosimo aveva riaperto il caso irrisolto di un omicidio avvenuto nel 1957 accusando due uomini di Termini Imerese di esserne i mandanti. Secondo Cristina, Tripi era stato assassinato per evitare che potesse parlare di alcune attività illecite di cui era venuto a conoscenza.  Non si limitò a scrivere questa verità, nella speranza che il caso venisse riaperto, ma rivelò anche il nome del presunto mandante. Qualche anno dopo, nel 1960, un altro articolo lo portò a pesanti conseguenze: «Un avvocato di Mazzarino, corrispondente di un noto giornale siciliano, è il capo della famigerata banda di monaci», era il titolo. Dei tre avvocati presenti nel paese solo uno si sentì offeso dall’accusa di essere il capo di un gruppo di uomini, tra cui quattro frati del convento di Mazzarino, arrestati nel 1960 per associazione a delinquere, estorsioni e omicidio e lo querelò per diffamazione. Questo non fermò Cosimo che continuò ad indagare su un altro caso collegato alla banda e per il quale ricevette un’altra querela. Alla fine del processo contro l’avvocato, durato venti giorni, Cosimo venne condannato a un anno e quattro mesi di reclusione e due milioni di lire di risarcimento.

Nonostante le minacce e le voci che giravano nel paese secondo cui Cosimo doveva prepararsi per una «lezione», il ragazzo portò avanti le sue indagini. Costretto a chiudere Prospettive Siciliane preparava, entusiasta, l’uscita di una «notizia bomba» che sarebbe stata pubblicata sull’Ora di Palermo. Qualche giorno dopo, la mattina del 3 maggio 1960, uscì di casa per comprare il giornale. «E che mi volete tenere in galera prima del tempo?», rispose alle preghiere di sua madre di non allontanarsi, preoccupata per una possibile vendetta. Enza lo vide percorrere la piazza del paese e poi girare l’angolo, per l’ultima volta. Luigi, suo padre, fu tra i primi a trovarlo il pomeriggio del 5 maggio steso a pancia in su tra i binari del treno.

Il caso venne riaperto nel 1966 dal vice procuratore di Palermo, Angelo Mangano. Il corpo di Cosimo, dopo sei anni, venne riesumato e i colpevoli individuati. Giuseppe Ingrao e Agostino Longo erano stati assoldati dal clan mafioso per uccidere il giornalista che aveva scoperto l’assassino del caso Tripi, l’avevano colpito a morte in testa e gettato il suo corpo tra i binari. Non ci fu nessun processo, i due accusati morirono nel 1961 e la perizia medica confermò la precedente ipotesi che fosse stata una pesante locomotiva a colpire il giornalista. Ancora oggi, il caso di Cosimo Cristina è archiviato come un suicidio.

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