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Esclusiva

Maggio 1 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Giugno 17 2020
Mario Francese, il cantastorie ucciso dalla mafia

Storia del cronista assassinato nel 1979. Il ricordo del figlio Giulio, presidente dell’OdG Sicilia

«Lascio la redazione, prendo il bus per tornare a casa. Scendo, giro l’angolo e vedo una folla. C’è mio fratello, dice che c’è stato un omicidio. Mi avvicino al cadavere, coperto da un lenzuolo, e a Boris Giuliano, capo della squadra mobile. Chiedo chi è quel morto. Mi prende da parte, mi stringe il braccio, dice che è mio padre». È il 26 gennaio 1979. A Palermo, la mafia spara e uccide Mario Francese, giornalista. Giulio è il presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia. Ed è suo figlio.

«Quella mattina seguiamo un processo. Poi, lui torna al suo giornale e io al mio. Ci salutiamo, ci saremmo rivisti a casa». Non sarà così. Quel giorno, lontano oggi più di quarant’anni, cambia la vita di Giulio e della sua famiglia.

Mario Francese, il cantastorie ucciso dalla mafia
Giulio Francese, presidente dell’OdG Sicilia

«Comincia un’altra storia, mi cade il mondo addosso. Un ragazzo che sta muovendo i primi passi nel mondo del giornalismo deve diventare uomo all’improvviso. Capofamiglia a vent’anni». Costretto a combattere per un ricordo, quello di suo padre, che troverà giustizia solo dopo anni di silenzio e una lunga battaglia successiva a una prima archiviazione del caso.

«All’inizio, l’omicidio cade nel dimenticatoio. A casa c’è sgomento e tanta delusione. Per quel poco che ne so, già durante l’interrogatorio indico la pista dei corleonesi. Mio padre si stava concentrando su quella mafia di provincia. Ne raccontava strategie, violenze, interessi. Stava ripercorrendo la sua evoluzione in un dossier (pubblicato postumo) e doveva esserci un collegamento». 

Per anni regna il silenzio. Fino alla manifestazione di Palermo, nel ’99, per il ventennale della sua scomparsa. È il momento della “riconciliazione” con la città. Si torna a parlare di Mario Francese.

Mario Francese mafia
Mario Francese

«Mio fratello mette insieme documenti e prove materiali, ci chiama a raccolta. Capiamo l’importanza della lotta per il ricordo e chiediamo di riaprire l’inchiesta».

Dopo ipotesi e dichiarazioni di pentiti, nel 2001 c’è il processo con rito abbreviato. Porta alla condanna a 30 anni di Totò Riina, Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco, Giuseppe Calò e Leoluca Bagarella, l’esecutore materiale del delitto. Nel processo bis, celebrato con rito ordinario, arriva l’ergastolo per Bernardo Provenzano.

Qualche mese dopo, il 3 settembre 2002, si uccide Giuseppe, fratello di Giulio.

«Oggi, mio padre non è più un giornalista dimenticato. Quella sentenza dice a tutti chi è stato e descrive l’impegno civile di un uomo che ha capito in anticipo i possibili sviluppi della mafia corleonese». 

Nelle sue inchieste, Mario Francese spiega il fenomeno mafioso e la sua struttura. Sul Giornale di Sicilia racconta i crimini e gli strani intrecci del suo territorio. Scrivendo di Corleone, è il primo a connettere morti sospette alla mafia e agli affari dei subappalti.

Indaga su una vendita milionaria di edifici, che avrebbe fruttato milioni da reinvestire nell’imponente progetto della diga di Lago Garcia (in provincia di Palermo), per far guadagnare miliardi alle famiglie della zona.

Dà fastidio ed è l’unico che riesce a intervistare la moglie di Totò Riina. «È il ’71 e Antonietta Bagarella arriva in tribunale con dietro una coda di giornalisti in cerca di un’intervista. Non so come abbia fatto, ma lei gli ha parlato. È stata un’intervista esemplare, che fa capire come un giornalista debba lavorare senza pregiudizi».

Un’altra intervista racconta l’umanità e la capacità di dialogo di Mario Francese. È quella a Felicia Bartolotta, madre del giornalista Giuseppe Impastato, altra vittima della mafia. “Peppino”, siciliano di Cinisi, entra fin da giovane in contrasto con il padre Luigi, coinvolto nella malavita organizzata. Denunciando i delitti e gli affari della sua terra, si batte per i valori di verità e giustizia. La sua morte, nel maggio del ’78, viene in fretta archiviata. «Mentre la stampa ufficiale parla di un suicidio avvenuto nel corso di un attentato terroristico, mio padre parla di omicidio. A quel tempo, la madre di Peppino Impastato non si è ancora allontanata del tutto dall’ambiente mafioso di suo marito. Anni dopo racconterà di quel giornalista che le ha fatto capire l’importanza del distacco da quel mondo, evitando la stessa fine per l’altro figlio».

La storia di questo cronista parla di un uomo morto con l’unica colpa di aver fatto del racconto di una terra difficile la propria passione. «Era sempre impegnato e faceva qualsiasi cosa con entusiasmo. Dopo mattinate intere al Palazzo di Giustizia, correva ad Aspra (frazione a pochi chilometri da Palermo) per curare il suo orto e i suoi animali. Poi, prima di tornare a casa stremato, di corsa in redazione. Quel dossier sull’evoluzione della mafia lo ha scritto a casa. Dopo cena, prima di andare a letto. Usava la macchina da scrivere, ma era un computer vivente. Aveva una memoria formidabile, che lo ha aiutato a fare collegamenti impensabili tra omicidi ed eventi. E poi amava lavorare a contatto con le persone, sul territorio. Seguiva le inchieste prima ancora che approdassero in aula. Non ho mai ritrovato un’energia del genere».

Mario Francese mafia

Giulio, ricordando quei momenti, esprime una convinzione. «Un giorno mi ha chiesto di prendere appunti in previsione di una sua futura morte. Ho cercato di interromperlo, ma nulla. Mi ha imposto di scrivere cose che sono poi servite per le pratiche della pensione. Penso che in fondo sapesse di dover morire, anche se ha sempre affrontato le minacce con un sorriso per mettere la sua famiglia al riparo dal resto».

Nel settembre del ’78, Francese ha un infarto. Si riprende e a dicembre torna sul campo, dove ad aspettarlo c’è proprio Giulio. «Comincio a lavorare in un giornale concorrente, anch’io nella cronaca giudiziaria. Per me diventa un amico e un collega. Posso dire che in quell’ultimo periodo insieme l’ho visto più tranquillo. Forse era contento di vedermi al suo fianco».

Nel 1993, in un momento difficile, viene istituito il Premio giornalistico Mario Francese. «Ho avuto modo di conoscere il grande rapporto che mio padre ha instaurato con i suoi lettori. Ha trovato un’anima anche nelle cose più nefande e ha saputo raccontarle sempre, tanto da essere definito, da un collega, “uno straordinario cantastorie di mafia”. Ciò mi fa emozionare perché ho visto, negli anni, che le persone non lo hanno dimenticato».

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