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Esclusiva

Aprile 14 2021
La scelta “disperata” del governo giapponese di sversare in mare le acque di Fukushima

La decisione preoccupa gli ambientalisti e paesi vicini come Cina e Corea del Sud. Per gli esperti non ci sono alternative

Il governo giapponese ha annunciato che smaltirà in mare le acque contaminate utilizzate per raffreddare i reattori della centrale atomica di Fukushima, danneggiata dal terremoto e dallo tsunami che colpirono la costa orientale del Giappone l’11 marzo 2011, provocando il più grande disastro nucleare dai tempi di Chernobyl.

Il governo ha assicurato che prenderà tutte le misure necessarie affinché le cose avvengano in sicurezza. La decisione è però controversa e ha sollevato le voci di protesta di associazioni ambientaliste, come Greenpeace, ma anche di paesi vicini, come Corea del Sud e Cina, per l’impatto ambientale che l’operazione potrebbe avere sull’ecosistema marino, e per le ricadute economiche sulle attività di pesca. 

L’acqua contaminata, stoccata nei container e destinata allo smaltimento, è sottoposta a un processo di depurazione da tutte le sostanze radioattive ad eccezione del trizio, un isotopo dell’idrogeno, la cui carica radioattiva si dimezza ogni 12 anni.  

«La Tepco, l’operatore che gestisce la centrale di Fukushima, ha però utilizzato un sistema di trattamento dell’acqua contaminata che si è rivelato poco efficace. Il 72% di quell’acqua è fuori norma. E’ stato un fallimento», commenta Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia.

Nel 2018 la Tepco ha infatti ammesso che nonostante la depurazione, nell’acqua sarebbero rimaste, oltre al trizio, anche tracce di stronzio-90 e carbonio-14, altri due composti molto più pericolosi. Prima di essere rilasciata in mare l’acqua dovrebbe essere dunque ulteriormente filtrata.

«La scelta del governo giapponese è la scelta della disperazione. Nessun uomo è mai stato sottoposto a una contaminazione da trizio, quali siano le ripercussioni sul lungo periodo è difficilissimo dirlo, ciò che si può dire per certo è che non è nulla di benefico», spiega a Zeta Valerio Rossi Albertini, fisico-chimico e primo ricercatore del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), cauto sugli effetti di una dispersione in mare del liquido contaminato.

In dieci anni la centrale ha stoccato 1,25 milioni di tonnellate di acqua contaminata in più di 1000 cisterne. Ma lo spazio disponibile sta per finire. Le operazioni di deflusso inizieranno nel 2022 ma saranno tutt’altro che rapide: potrebbero volerci infatti alcuni decenni per smaltire tutto il liquido accumulato. 

«Sulle conseguenze ambientali bisognerà vedere. L’acqua da smaltire è blandamente radioattiva, se verrà versata un po’ alla volta nell’immensa massa dell’Oceano le correnti faranno sì che venga diluita e che il tasso di radioattività scenda rapidamente sotto la soglia percettibile», afferma Rossi Albertini.

Ad oggi sversare in mare l’acqua di raffreddamento dei reattori di Fukushima appare la decisione più sbrigativa e più economica. Per alcuni esperti è anche l’opzione più sicura.

«La diluizione in mare del trizio è l’operazione più sicura da fare per abbattere il rischio di radiazioni e l’impatto sull’ambiente. Ma bisogna farlo nelle forme e nei tempi previsti dalle raccomandazioni generali dell’Iaea, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica, alle quali il Giappone ha detto di volersi attenere», commenta Alessandro Dodaro, direttore del dipartimento Fusione e Tecnologie per la Sicurezza nucleare di Enea, l’agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile. 

Una simile soluzione resta però fortemente criticata e avversata da Greenpeace, secondo cui la diluizione in mare comunque non metterebbe a riparo l’ecosistema e gli uomini dai rischi connessi alla radioattività delle sostanze sversate.

«L’idea che la diluizione riduca i rischi non si applica alle  sostanze in questione, che entrano nella catena alimentare, nel plancton, nelle alghe. Il governo giapponese dovrebbe continuare a stoccare l’acqua a lungo termine, non è vero che non c’è spazio», afferma Onufrio. 

L’acqua è lo strumento principale per raffreddare il nocciolo di un reattore, la sezione cioè in cui avvengono le reazioni nucleari, ad è una pratica utilizzata anche nelle centrali regolarmente in funzione. Ogni impianto atomico riversa in mare o nei fiumi l’acqua di scarto contenente trizio, ma in piccole quantità. Nel caso dell’incidente di Fukushima, per la prima volta l’acqua è stata utilizzata per raffreddare un nocciolo fuso, accumulandosi in quantità esorbitanti. Prima di decidersi per la diluizione in mare, il governo giapponese ha considerato e poi scartato anche la possibilità di far evaporare l’acqua stoccata, un’operazione che secondo gli esperti non avrebbe comunque avuto un impatto più ecosostenibile o benefico.

Tokyo avrebbe potuto immaginare delle soluzioni meno impattanti, se si fosse mossa per tempo e a condizione di sborsare molti soldi? «Con un finanziamento esorbitante, in Giappone avrebbero potuto congelare l’acqua e conservarla in un spazio apposito in silos refrigerati, come si fa con le scorie nucleari sistemate nei depositi. E attendere così che la carica radioattiva del trizio si estinguesse da sola. Pensare ora di congelare tonnellate di acqua è un’impresa ciclopica, si sarebbe dovuto avviare un processo del genere dieci anni fa, subito dopo l’incidente», conclude Rossi Albertini.