«Abbiamo costruito un muro attorno a lei per tentare di proteggerla dal mondo» dice Taras Berezansky cittadino ucraino e tenore dell’opera di Kiev. Sua figlia ha dieci anni e dallo scoppio della guerra vive in una bolla protettiva. I suoi genitori hanno provato a impedire che ogni notizia del conflitto la raggiungesse. Anche se «in una città fantasma con qualche luce qua e là» come Kyiv riesce a dormire tranquilla, la sua quotidianità non è più la stessa. Niente più Barbie, Harry Potter o i cartoni animati in voga al momento. «Mia figlia costruisce con i lego case per i rifugiati. In quel momento quando l’ho vista ho quasi pianto». Tra chi scappa e chi rimane, la guerra ha segnato la salute mentale della popolazione ucraina superando ogni confine.
Infatti secondo Andrea Melella, psichiatra e psicoterapeuta coordinatore nel 2014 di un progetto sul campo di Medici senza frontiere per l’aiuto psicologico della popolazione del Donbass, «È un dolore condiviso, il grado di sofferenza riguarda la storia personale. Anche gli ucraini qui in Italia stanno soffrendo, non riescono a stare lontani dalle comunicazioni con i loro parenti». Anche solo la possibilità che qualcosa possa succedere, la linea occupata o il telefono staccato possono creare stati d’ansia. «Oggi si usa la parola “resilienza individuale”, la capacità di fare fronte con le proprie esperienze psicologiche. Non c’è una minore sofferenza, ma un modo di reagire differente».
Dopo i bombardamenti su Kyiv, Taras è fuggito a Leopoli per lasciarsi dietro di sé il frastuono delle esplosioni. Quando la situazione si è stabilizzata e i russi hanno iniziato a ritirarsi dalla capitale, ha fatto ritorno nella città con la sua famiglia. «Non so come mi sento psicologicamente, ma la vita ora è diversa. A mia figlia ho provato a non dare tutte le informazioni sulla guerra e sembra sopportare la situazione».
A circa un migliaio di chilometri di distanza Cristina De Luca, membro dell’assocazione Emdr Italia e coordinatrice dell’assistenza psicologica nell’hub veneto di prima accoglienza di Monselice, tra i profughi ucraini in fuga di bambine come la figlia di Taras ne vede molte. «In loro c’è una difficoltà di regolazione, faticano a stare tranquilli e a concentrarsi. Hanno assimilato il trauma nel loro fisico e diventano ipersensibili, per esempio con i rumori forti». Paura e difficoltà nel sonno possono accompagnarsi nei bambini a regressioni a stadi infantili precedenti. Lo stesso consiglio esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità nel gennaio del 2005 ha segnalato la necessità di aumentare “i programmi per riparare i danni psicologici della guerra, dei conflitti e di disastri naturali”.
Sul suolo ucraino Melella notò invece un fattore a tratti opposti. Era sufficiente il sibilo lontano di una bomba a «trasformare gli adolescenti in giovani adulti. La loro funzione protettiva nei confronti dei fratelli più piccoli era molto forte e diventano dei veri e propri collaboratori delle madri. Il loro linguaggio non verbale era di una sofferenza palpabile». Se sempre per l’Organizzazione mondiale della sanità “il 10% delle persone che subisce un’esperienza traumatica sviluppa seri problemi di salute mentale”, per Melella curarsi era molto difficile. «Nei casi gravi potevo intervenire con una cura farmacologica, ma in Ucraina non c’è un’assistenza psichiatrica territoriale. Gli ospedali sono ancora il centro per ogni cura».
Intervenire e intraprendere un trattamento non è affatto facile. Oltre alla difficoltà geografica e logistica, anche la cultura locale sbarra la strada agli operatori sanitari. «Le donne cercano di essere forti perché lo sono culturalmente. L’esserlo e il farcela da soli per la loro cultura è un valore» dice Cristina De Luca. I cittadini ucraini non espongono con facilità il dolore e la fatica perché «ritengono l’amore per la patria un grande valore» e la sfruttano come loro forza.
Sul campo l’intervento raggiunge un grado di complicatezza ancor più elevato. Quando nel 2014 Andrea Melella arrivò in territorio ucraino, coordinava un team di quattro psicologi. Divisi a coppie, percorrevano la striscia di terra sul confine tra Ucraina e Russia, fermandosi per visitare almeno una decina di tappe al giorno. Tra sedute in scuole, biblioteche e monasteri, «noi andavamo anche passando il fronte. In un paese controllato da soldati giovanissimi, la temperatura arrivava a meno venti gradi» dice Melella. I civili venivano posti in cerchio mischiando l’età o in una formazione composta solo da bambini, a cui poi i genitori avevano la facoltà di aggiungersi. «In questi contesti il discorso della timidezza e dell’attaccamento alla propria privatezza veniva meno, tutti soffrivano insieme. I gruppi erano insieme di ascolto e anche di tematizzazione delle emozioni e dei sentimenti che queste rotture, questo brusco cambiamento di vita, provocava in loro».
A Kyiv, Taras ha intenzione di rimanerci. Nelle ultime settimane si è allenato per arruolarsi come volontario nell’esercito ucraino ma è stato dissuaso da sua sorella, che è già sul campo di battaglia dallo scoppio della guerra. «Gli amici se ne sono andati, altri sono al fronte. Per ora penso di essere felice e riesco anche a dormire senza sognare».
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