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Esclusiva

Maggio 29 2022
Hashish e Liguria, cronaca di una diserzione

Ne “Il cannocchiale del tenente Dumont” un soldato napoleonico dall’indole sognatrice diserta con altri sbandati. Per l’autore, Marino Magliani, l’occasione di esplorare una condizione che sente propria

Il tenente Henry Dumont nella sua «contemplazione forzata», con il cannocchiale, scruta la natura ligure nell’estate del 1800. Prova a indovinarne i ritmi nei colori del tramonto, nelle zone d’ombra, nelle falci laboriose dei contadini dai quali si nasconde. Lui e i suoi compagni di viaggio, fuggiaschi dalle divise logore e il passo assorto, erano tre soldati dell’esercito napoleonico nella campagna d’Egitto, prima di iniziare a consumare hashish. “Il cannocchiale del tenente Dumont” (L’orma editore), uno dei dodici romanzi finalisti del Premio Strega 2022, è la cronaca di una diserzione. Il viaggio dei tre sbandati diventa occasione di comprendere la disperata ricerca della libertà, di indagarne le ragioni.

«Il disertore, senza saperlo, lavora fino alla fine a qualcosa di impossibile, non c’è in effetti un sogno, niente potrebbe avverarsi, se non che si sta già facendo il possibile per allungare il tempo».

«Ho iniziato a scrivere il romanzo addirittura nel secolo scorso», spiega Marino Magliani, l’autore. «Sono nato in Liguria ma l’ho lasciata da bambino. Sono tornato che avevo quindici anni, ma sono stato poco. Poi Spagna e Sud America prima di arrivare alla costa olandese dove vivo da più di trent’anni». «Mi chiedevo come fosse arrivato l’hashish in Europa nei tempi moderni, visto che era consumato da Baudelaire. Ho scoperto che i primi narcotrafficanti di questa sostanza erano stati i reduci della campagna d’Egitto». Su questo presupposto nasce il romanzo: Napoleone istituisce una commissione per indagare sulla nuova sostanza e i suoi effetti sulle truppe. Un dottore olandese si metterà sulle tracce di tre sbandati in particolare.

Sono il capitano Lemoine, il soldato Urruti e il tenente Dumont. Stessa sorte da disertori ma storie e caratteri diversi. Disertano a Marengo, nella famosa battaglia, sedotti dall’effetto del fumo. «All’inizio l’hashish è una cosa che interessa tutti e tre. Il capitano è malato, ha una serie di segreti, di misteri, che lo legano alla città di Porto Maurizio. Il basco, il soldato, è uno che ha l’unica missione di obbedire al capitano. L’hashish rimane nelle mani del tenente. È lui che lo gestisce, lo porta con sé». Ma l’erba troverà sempre meno spazio nella narrazione, fino a scomparire del tutto. Diventerà poco più di un «paesaggio» dei tanti che la penna di Magliani descrive con grande abilità narrativa.

Gli stessi disertori perderanno interesse nella sostanza e sarà proprio Dumont a liberarsene. «E quando lui lo getterà avrà quasi il timore di aver fatto qualcosa della quale potrebbe venire rimproverato ma non sarà così». Con molta naturalezza «lui ha desiderato di gettarlo e l’ha gettato».

L’autore trentenne aveva visto nella storia dei narco-disertori francesi il pretesto di romanzare, quasi mitizzare, la storia della sostanza. L’autore sessantenne diventa indifferente al tema e anzi «il libro si è trasformato in una specie di manuale per abbandonare l’hashish». «Se questi trent’anni hanno un merito sul lavoro lunghissimo, sulla lingua e sulle immagini, è quello di aver tracciato questo percorso per abbandonare la “contemplazione forzata”», dice Magliani. «Che poi è quella del cannocchiale: una costrizione, come l’hashish. E allora questa ginnastica dell’occhio dovrebbe diventare una contemplazione naturale. E invece l’hashish è una cosa che ci violenta e che ci impedisce di guardare il mondo liberamente».

Così il narrato ha modo di concentrarsi sulla condizione dei disertori. Il ritmo lento e misurato porta il lettore osservare da vicino le vicende. Il succedersi degli avvenimenti, senza capovolgimenti significativi nella trama, segue quasi quello della realtà e permette un’esperienza di lettura immersiva. È facile visualizzare le evocative immagini della campagna ligure, ma anche indovinare gli stati d’animo dei protagonisti, le loro emozioni e i loro turbamenti.

«Perché questo romanzo è stato scritto lontano dalla Liguria e lo scrittore stesso è stato costretto a un’immersione nella memoria», dice Magliani. «Per ricercare i suoni e i colori della campagna degli anni ’60, che poi non era molto diversa da quella di inizio Ottocento. Stesso silenzio, stessa fatica con le falci, tolta la ferocia degli eserciti che meno male non passavano più. Quell’assenza di rumore e di brusio che oggi non esiste più. Ora è una campagna inghiottita dai rovi, crollante».

È la partecipazione emotiva dello scrittore a far vivere i personaggi, ad animare la loro corsa verso l’irrealizzabile desiderio di libertà. «Io ci ho messo tanto a capire che non ero un esule, un emigrante o un viaggiatore, ma solo un disertore». E tra i vari profili dei protagonisti non può che riconoscersi «nello spirito di Dumont. Sognatore anche goffo, inadeguato ma con il culto della libertà». Altra figura importante nell’economia del romanzo è quella del dottor Zomer, che monitora, insegue, spia i tre disertori. «È un po’ il loro destino, li ha fatti seguire per procurarsi una specie di gloria, che potrebbe essere anche letteraria. Mi piace molto anche questo tarchiato dottore di origini olandesi che alla fine si innamora del personaggio e sarà felice di salvarlo e vederlo innamorato di una donna».

“Il cannocchiale del tenente Dumont”, dunque, è un lavoro frutto di più viaggi, quello dei protagonisti e quello dello stesso autore. Racchiude le decadi che hanno interessato la stesura del romanzo e la maturazione dello scrittore. «Quei trent’anni di tempo mi sono serviti davvero per pensare, condensare e far vivere ai disertori una dimensione che potesse tenerli incollati alla storia pur mostrandoli ignari, com’è nella natura della fuga. Un disertore assorbe e va incontro alla storia ma non la conosce, attraversa una terra senza avere il tempo di comprenderla». È preso da una strana sensazione di nostalgia «di un luogo sconosciuto. La nostalgia non è neanche di un tempo passato, ma di un tempo futuro che manca».

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