«La guerra in Ucraina, la dittatura in Iran, il terremoto: il mondo si sta disintegrando. Celebrare il cinema significa lottare per la libertà». Golshifteh Faharani così prende parola alla conferenza stampa d’apertura della 73esima edizione della Berlinale. L’attrice iraniana, quest’anno fra i sette giurati chiamati a decretare il vincitore tra i 19 film in concorso, ha vissuto sulla propria pelle la privazione della libertà: nata a Teheran, musicista e attrice, nel 2008 ha rifiutato di sfilare a capo coperto sul carpet di Nessuna Verità e da quel giorno è costretta a vivere fuori dal suo paese. «Nelle dittature, come ad esempio l’attuale Iran, l’arte è spogliata dalla sua veste filosofica per diventare discorso essenziale, ossigeno».
Faharani è solo uno dei volti politici di una festa che, fin dalle sue prime edizioni, ha sempre percorso la via dell’impegno politico e sociale. Berlino è la città che porta il marchio della Storia in ogni pietra che si calpesti: ciò che rimane del muro costruito per dividere l’umanità l’ha resa oggi terra di tutti, melting pot di culture e desideri. Non a caso – e non certo per banalità – l’attrice ricorre all’immagine del muro come incipit del suo discorso. «Berlino è stata la città che ha distrutto il muro attraverso la libertà e l’uguaglianza». Anticipa di qualche ora ciò che dirà il presidente ucraino Volodymir Zelensky, ospite in collegamento dal paese in guerra, nel corso della cerimonia serale d’apertura. «Wim Wenders abbatté il muro di Berlino prima che cadesse con gli angeli de Il cielo sopra Berlino: oggi, la Russia vuole costruire un muro in Ucraina, tra noi e l’Europa, tra la civiltà e tirannia» ha detto tra gli applausi e la commozione della folla.
Occhi lucidi anche per Sean Penn, che proprio insieme a Zelensky ha documentato i primi mesi di guerra in Superpower, che il 18 febbraio avrà la sua prima mondiale al Berlinale Palast. «Zelensky è un eroe dei nostri tempi e penso che sia stato importante aver dato la possibilità di amplificare il messaggio di pace dell’Ucraina, che è ciò che tutti noi desideriamo». Sono le parole di Anne Hathaway, tra le star internazionali più attese del carpet insieme a Peter Dinklage. I due attori giovedì mattina hanno presentato il film scelto per inaugurare il festival, She came to me di Rebecca Miller: una commedia che intreccia le vicende di un compositore in crisi creativa e un incontro che gli cambierà la vita, una moglie dalla vocazione religiosa e una storia d’amore tra due adolescenti che sfocerà in maniera imprevista.
Un’edizione 73 che si celebra in tempi difficili, e per questo, «partecipare oggi alla Berlinale significa stare spalla a spalla con quelli che lottano per esprimere le proprie idee, e con quelli che rifiutano di sottomettersi a una visione conformista della realtà che detta cosa e deve essere detto», scrive il direttore artistico Carlo Chatrian nel suo editoriale ad apertura del programma2023, che infatti dedica ampie sezioni all’Ucraina e all’Iran. Oltre a Superpower, durante le giornate saranno proiettati anche W Ukraine (Piotr Pawlus e Thomasz Wolski) ed Eastern Front (Vitaly Mansky e Yevhen Titarenko). Grande attesa anche per il film iraniano La Sirène di Sepideh Farsi. Ma il programma si estende anche a incontri e istallazioni a tema.
I 19 film in concorso saranno giudicati da una giuria di livello internazionale, a netta prevalenza femminile. Oltre a Faharani, vi sono la produttrice americana Francise Maisler (12 anni schiavo, Birdman, Marriage Story), la regista e sceneggiatrice spagnola Carla Simòn (Alcarràs), la tedesca Valeska Grisebach (Western) e i due registi Johnnie To e Radu Jude, quest’ultimo vincitore dell’Orso bianco 2021 con l’eccentrico Bad Luck Banging or Loony Porn. A svolgere il ruolo di Presidente, invece, è Kristen Stewart (Twilight, Spencer), che si dice ancora sorpresa e incredula per l’importanza della nomina ottenuta. «È qualcosa che ancora non ho compreso, ma sono pronta ad essere cambiata da questa esperienza, dai film e dalle persone che ho accanto». Come giudicheranno? «La diversità e l’ampiezza delle prospettive dei film ci forniranno nuovo materiale con cui confrontarci e su cui discutere. Se non saremo d’accordo, vorrà dire che il film è buono».
In conferenza la giuria insiste sull’importanza del cinema come luogo di confronto. «Finché l’umanità esiste, noi racconteremo storie e ci raduneremo nei cinema. Poiché raccontare storie ci fa riflettere e crescere gli uni con gli altri» dice Faharani. Parole che riflettono la scelta dell’immagine della locandina di quest’anno: un poster che mette al centro le persone, nell’idea di celebrare l’esperienza condivisa e compartecipata di vedere un film. Specialmente dopo due anni di vita interrotta dalle restrizioni covid. «Chi vuole distruggere una società, distrugge il cinema, perché il cinema ha una forte connessione con il pubblico» spiega il giurato Johnnie To.
E il pubblico ha già risposto sfilando ieri sul carpet d’apertura, dove alcune ospiti hanno lanciato il messaggio Donna, vita e libertà, lo slogan che sta guidando le proteste della popolazione iraniana, o dove due attivisti per il clima di Last Generation si sono seduti per protestare sul tappeto rosso, in protesta pacifica e quando la maggior parte degli ospiti era già nell’edificio. E che a distanza, dalle persone in sala, sono stati accolti da applausi. Appena al di fuori dell’area stampa, invece, un gruppo di lavoratori della società cinematografica tedesco Yorck Kino si sono radunati per manifestare contro i contratti a tempo determinato e la bassa paga oraria.
La 73esima edizione della Berlinale si apre, ancora più nettamente degli scorsi anni, all’insegna della politica. Discutere, confrontarsi e trasformarsi è il messaggio di una festa diffusa capillarmente nei cinema di tutta la città, segno della necessità di continuare a tenere accesi l’arte e la cultura come «un fuoco che scalda e ci spinge in avanti», come racconta Faharani. Il cinema non è solo una caverna buia in cui ci raduniamo con altre persone – bellissima immagine della giurata tedesca Valeska Grisenbak – ma che in virtù di questo ha bisogno di cura, perché luogo di impegno politico e sociale. «Di questo oggi, abbiamo bisogno più che mai».
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