«I russi si sono sbagliati di grosso, confondendo il fatto che in Ucraina moltissime persone parlano russo – oppure se non lo parlano lo conoscono – con l’idea che le stesse persone li avrebbero sostenuti nel caso di un’invasione e di un’occupazione». È questo secondo la linguista ucraina Marina Sorina il grande errore strategico compiuto da Putin alla vigilia dell’invasione: credere che la lingua potesse essere una garanzia di fedeltà, quando, in realtà essa è «solo uno strumento comunicativo».
Ciò non nega la rilevanza che la lingua ha nel costruire l’identità nazionale. Nel corso dei secoli numerosi linguisti e teorizzatori del concetto di nazione hanno riconosciuto che i sistemi linguistici concorrono ad alimentare il sentimento di appartenenza. Conferma ne è il fatto che i popoli colonizzatori, di ogni epoca e ad ogni latitudine, annoverino tra i primi atti compiuti per stabilire il proprio dominio sulle popolazioni suddite quello di imporre la loro lingua. È successo in Africa con il francese, in India e nel Nord America con l’inglese, in Sud America con lo spagnolo e il portoghese. Infine, è successo anche in Ucraina col russo. Il fatto che nel Paese così tanti ucraini parlino russo «è il risultato di tanti secoli di politiche di colonizzazione intenzionali. L’ucraino veniva o cancellato o messo da parte o deriso, comunque emarginato e sostituito con il russo che gli ucraini stessi preferivano scegliere per far carriera», spiega ancora Sorina.
Così è stato all’epoca degli zar, al tempo dell’Unione Sovietica, ma anche dopo l’indipendenza. «Allora non c’era più pressione ideologica, ma entrava in gioco la convenienza. Per fare un esempio, se si girava un film, tanto valeva produrlo in russo, così lo si poteva vendere anche in Russia, Moldavia, Kazakhistan».
Una lingua, l’ucraino, bistrattata tanto dai russi quanto, per effetto del condizionamento, anche dagli stessi ucraini. Per gli i primi «la lingua ucraina è percepita come qualcosa di buffo, ridicolo, colorito, pittoresco», inadeguata al punto che i russi sono certi che «non possa esistere la letteratura scientifica in ucraino». Una convinzione fatta propria dagli stessi ucraini, non solo da quelli con gradi di scolarizzazione minore ma anche dagli accademici. «Anche i miei genitori, che si sono tutti e due laureati e dottorati in russo – ricorda Sorina – sono convinti che non esista terminologia filosofica o fisica ucraina. Hanno dimenticato che tutto questo c’era prima che il governo sovietico uccidesse le persone che scrivevano manuali o facevano ricerca in ucraino». Fino agli anni Sessanta, racconta la linguista, era possibile discutere una tesi di dottorato nella lingua ucraina «ciò dimostra che il lessico scientifico esisteva. Poi, per ragioni di diffusione dei contenuti si è preferito fare tutto in russo». A nulla sono valsi i tentativi, compiuti negli anni Novanta, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, di ristabilire l’ucraino come lingua adeguata anche all’ambito accademico. «Come reazione di compensazione a quanto accaduto fino ad allora si decise, da un giorno all’altro, di imporre l’obbligo di insegnare nella nostra lingua. Così gli insegnanti che fino ad allora si erano formati e avevano fatto lezione solo su testi in russo si trovarono disorientati. Non esistevano manuali di chimica molecolare, ad esempio, in ucraino. Questo creò, comprensibilmente, malcontento. Ma si trattò di un errore nella gestione strategica del problema più che altro».
Così siamo arrivati alla soglia dell’invasione, cominciata nel 2014. Eppure allora, spiega Sorina, ancora non tutti gli ucraini avevano preso coscienza di quanto fosse centrale la questione linguistica. «Però un anno fa, con la guerra estesa a tutta l’Ucraina, è cominciato un cambiamento radicale. Non fa più piacere parlare russo anche se è la tua lingua madre alla quale sei legato per i ricordi d’infanzia e di vita. La gente sta cercando di imparare l’ucraino o perfezionarlo e prende molto le distanze da tutto quello che è russo a partire dalla lingua ma questo vale anche per la cultura, la storia, le tradizioni».
La lingua può, dunque, essere uno strumento di pressione e assoggettamento. «Si pensi a cosa fece il fascismo con i dialetti. In quel caso è vero che non c’era letteratura complessa in dialetto, a quanto mi risulta, non c’era una Bibbia in lingua veneta, ad esempio, ma l’idea era esattamente la stessa. Più riesci a uniformare le persone, più puoi manipolarle».
Tuttavia, quando l’integrità di un popolo viene minacciata, come successo in Ucraina, questo può anche usare la propria lingua come un’arma. «Noi ucraini appropriandoci della nostra padronanza di russo rafforzata dalla padronanza dell’ucraino abbiamo una marcia in più. Possiamo sfruttare il russo per mettere in ridicolo la loro cultura di massa e mettere in ridicolo la loro propaganda. A volte i russi parlano russo peggio degli ucraini perché hanno un livello di scolarizzazione inferiore e quindi fanno errori grammaticali gravi ed evidenti. Noi possiamo usare il nostro retaggio coloniale contro di loro, preparando analisi dei fatti dal nostro punto di vista».
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