«Siamo nel mezzo di un vero e proprio dibattito giornalistico, culturale e politico e al suo centro c’è il criterio dell’oggettività. Nei prossimi anni, soprattutto in vista della ricandidatura di Trump nel 2024, il tema diventerà il principale terreno di battaglia», dice David Greenberg, professore di giornalismo e media studies alla Rutgers University del New Jersey ed editorialista di Politico.
Dalla sezione “Opinion” del New York Times alle manifestazioni di Black Lives Matter, alcuni giornalisti e attivisti vedono nel giornalismo tradizionale, soprattutto nel criterio dell’obiettività, un pericolo per la democrazia. Per Wesley Lowery, giornalista afroamericano con un passato al Washington Post, l’essere obiettivi significherebbe solo abbracciare la visione di uomini bianchi, silenziando ancora di più la voce delle minoranze. «Questo però non significa abbandonare l’obiettività, ma allargarla ancora di più. Come racconta Lowery, descrivere una sparatoria solo dal punto di vista della polizia non è oggettivo. Ciò però non significa la morte del criterio giornalistico, ma il riconoscere un nostro bias (una distorsione soggettiva della realtà, ndr) per poterlo ampliare e migliorare», commenta Greenberg.
Tra i due schieramenti, progressisti da una parte e conservatori dall’altra, il metodo sembra essere comune. «La richiesta di una “chiarezza morale”» di alcuni giornalisti «può essere vista come controparte della destra. Per una parte i media sembrano conservatori e legati all’establishment, per l’altra sembrano troppo liberali e legati al progressismo. Entrambi i lati sono cinici verso la possibilità di mettere da parte i loro bias politici e raccontare una vera storia. Penso che in tutti e due i casi ci sia una perdita di fiducia verso il giornalismo, persino verso il genere umano, nella capacità di riconoscere i nostri bias, i nostri limiti e superarli».
A intensificare la discussione sull’oggettività è intervenuta la presidenza Trump. «Il discorso ebbe origine negli anni Sessanta, ma c’è stata un’impennata durante la sua residenza alla Casa Bianca. Da una parte i social media hanno la tendenza a ignorare i media mainstream, a eludere la realtà e manipolare i fatti. Dall’altra abbiamo Trump e la capacità che ha avuto di utilizzare questo aspetto dei social. La sua presidenza ha aumentato la polarizzazione, anche attorno all’oggettività».
Di fronte al tycoon americano, i media non sapevano come rispondere ai suoi attacchi alla realtà. «Ogni giornalista diceva di dover abbracciare le proprie opinioni per combatterlo. Io non penso che l’oggettività durante Trump sia scomparsa. La verità è sempre stata lì, era solo stata elusa. Ogni cosa che diceva poteva essere corretta attraverso indagini precise».
A rappresentare un caso esemplare il rapporto Steele pubblicato nel 2016. Il testo documentava le indagini a carico di Trump per i suoi legami con la Russia. «Quando uscì alcune persone, come Bob Woodward (uno dei due cronisti che indagò sullo scandalo Watergate ed ex vice-direttore del Washington Post, ndr), dissero che era spazzatura. Online c’erano articoli acchiappa like che ne illustravano delle parti, ma senza contesto e senza spiegare nulla. Reporter ed editor capaci portano con sé anni di esperienza che conducono a porsi delle domande: pubblico questo rapporto Steele? Come ne parliamo, quando e quanto? Più i tuoi giornalisti ragionano sul loro lavoro, più sono professionali e cauti, più è probabile che si riesca ad arrivare al pubblico e che questo ritenga vero e neutro ciò che dici».
La verità a volte non sembra però andare d’accordo con lo zoccolo duro repubblicano. «Nel riportare fatti politici non c’è molto da fare con la parte che supporta la ricandidatura di Trump? Questo non è vero. Si può fare una giusta copertura delle notizie, dei fatti, fare fact checking. Penso che la questione sia soprattutto quale sia la giusta quantità di notizie da produrre».
A un anno di distanza dalle nuove elezioni americane, dagli Stati Uniti il dibattito sull’oggettività si allarga a ogni spettro di estremismo e minaccia alla democrazia. Per David Greenberg, a risolvere la situazione sarebbe un semplice equivoco. «Il punto dell’oggettività non è il fatto che le persone abbiano una visione politica, ma il fatto che essendo professionisti mettano da parte le loro opinioni e le loro visioni personali per lavorare. Se vogliamo proteggere la democrazia, non dobbiamo essere sensazionalisti o parlare per slogan, ma allenare questa nostra capacità e comprendere come poterla migliorare giorno dopo giorno».