Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Marzo 29 2020
Serie tv, giornalismo di frontiera e molto altro: il seminario di Saviano

È durata 2 ore e mezzo la lezione online del giornalista e scrittore Roberto Saviano ai 24 studenti della Scuola Luiss. Dal giornalismo multimediale per le serie tv alle nuove prospettive della professione, il racconto dei momenti salienti

«Robert Capa mi ha insegnato a scrivere, non a fotografare» sorride Saviano, mentre racconta il padre del reportage fotografico. Nella sua biografia, Leggermente fuori fuoco, Capa racconta il suo bisogno di fotografare la realtà. Fare foto a fuoco vuol dire essere a distanza di sicurezza, invece le foto sfocate vengono fatte da vicino mostrando cose che altrimenti non potremmo vedere. «Questo è il giornalismo per me», muovendo la mano scandisce il ritmo della sua frase. «Io non voglio fare le cose a fuoco, ma fuori fuoco. Io non voglio la giusta distanza, ma l’assoluta vicinanza. Cercando di non compromettere lo studio della cosa. Dando al lettore gli strumenti giusti per comprendere che la mia vicinanza non – e lo sottolinea con decisione – è il punto del commento, gli elementi che gli sto dando lo sono». È questo che permette al lettore di comprendere al di là del dato e che rende la cronaca meno fredda. Un metodo di giornalismo che non funziona sempre, non a caso Saviano specifica più volte che questo è il suo principio, non è universale. La tradizione anglosassone, per esempio, è più rigorosa. Questo da una parte rende la veridicità dell’articolo sicura, ma dall’altra parte la freddezza impedisce una vera comprensione da parte del lettore.

«Tutto ciò deve farvi capire che il destino di un articolo è incontrollabile. A differenza del passato il lavoro della nuova generazione di giornalisti non finisce con la consegna dell’articolo, lì inizia perché bisogna condividerlo con tutti». Oggi bisogna essere ufficio stampa dei propri scritti. L’immagine di grandi giornalisti del passato, come Enzo Biagi, inorriditi dall’idea di dover far pubblicità al proprio pezzo attraverso lunghi giri di telefonate fa sorridere, ma adesso questo gesto è vitale.

«Può succedere che un articolo ricercato, approfondito, curato e brillante non se lo fili nessuno perché quel giorno il dibattito politico è mirato su altro. Dovete farvi forza e scegliere che tipo di giornalisti essere», una pausa segue queste parole, come se Saviano volesse dare ad ognuno il tempo per rispondersi dentro. «Se volete rincorrere il trend o l’hashtag il vostro lavoro sarà di commento, non di ricerca. È un tipo di giornalismo che si nutre della battuta di caccia del giorno. C’è poi un altro tipo di giornalismo che è quello dove ti tieni nelle retrovie e come un minatore scavi storie», cosa che oggi costa al giornale e al giornalista e spesso ripaga con poche visualizzazioni. «Ma senza questo giornalismo saremmo morti». Il commento premia, ma senza la ricerca si finisce per portare il lettore dritto nelle braccia della dietrologia, quello che sta accadendo oggi con il coronavirus.

In momenti di ansia e paura, come questo, è importante che il giornalista e il lettore si diano tempo per conoscere. «Un’epidemia è molto più rapida dell’analisi della scienza, a cui però l’informazione chiede un parere continuo», che per il lettore non è altro che un commento, intrattenimento. «Parla solo quando puoi migliorare il silenzio, dice un grande maestro, e se non puoi migliorarlo statt’ zitt’», aggiunge Saviano. «Se i giornali non hanno forza di prendere una posizione prudente e dare una spiegazione didascalica del virus vincono i siti secondo cui è tutta un’operazione anti-cinese di Trump».  I commenti e i pareri continui degli esperti, interpellati due volte l’ora senza tener conto della loro effettiva ricerca, hanno generato confusione tra i lettori che hanno cercato di mitigare le proprie paure dietro teorie di cospirazione.

Quando il giornalismo incontra le serie tv

«Di cosa devo parlare?». Roberto Saviano sceglie di raccontarci ciò che in questo momento lo infiamma e reputa sia necessario per noi, suoi interlocutori. Il pensiero va ad un spazio di giornalismo molto ambito. Può un giornalista scrivere film e serie tv? È questa la domanda che Roberto pone a bruciapelo all’inizio della sua lezione. Pensare in termini cinematografici, in termini di fiction, è possibile per chi, per mestiere, ricostruisce la realtà attraverso fatti, dati, ipotesi interpretative corroborate da evidenze e testimonianze attendibili? Come si può coniugare il principio di aderenza alla realtà, alla base della professione giornalistica, con un racconto per immagini che deve comprendere, e non può respingere, l’immaginazione?

Serie tv, giornalismo di frontiera e molto altro: il seminario di Saviano
Gomorra, la serie tv scritta da Roberto Saviano, basata sul suo romanzo

Per un giornalista, lavorare a documentari, film e serie è una possibilità nuova e ancora in larga parte inesplorata in Italia, ma che può rappresentare una concreta opportunità per tanti giovani che si affacciano alla professione. Negli Stati Uniti, il giornalista che scrive per il cinema e che lavora per produzioni importanti è una figura sempre più diffusa. Oltre al rigore nella ricostruzione dei fatti, c’è anche una dimensione artistica che può emergere e che può contribuire a rendere il prodotto accattivante, senza scivolare nell’inverosimile. Le serie tv Malcom X, Waco e The looming tower raccontano pezzi di storia americana ricostruita partendo da saggi teologici e sociologici, libri e atti del Congresso degli Stati Uniti, riadattati in forma cinematografica dai giornalisti che hanno preso parte alla scrittura della sceneggiatura. Un lavoro simile è presente anche in due docufilm diretti da Adam McKay, The Big Short che ripercorre lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, e Vice che prova a far luce su Dick Cheney, vicepresidente di George W. Bush, una delle figure più importanti e allo stesso tempo più oscure della politica statunitense dell’ultimo mezzo secolo.

Il mondo americano sta cambiando, spiega Saviano. Cambiano i gusti, le aspettative, la scelta dei film e delle serie da guardare si scinde in due. Il pubblico del piccolo e del grande schermo ama vedere storie vere o storie del tutto inventate, fantasy. Per il verosimile, per le storie “tratte liberamente da” c’è sempre meno spazio, un cambio di paradigma che arriva anche agli spettatori italiani, fruitori di prodotti americani. Questa fame di realtà, di ciò che è autentico, vero, ha portato alla nascita di esperimenti cinematografici che hanno alla base la ricostruzione capillare degli eventi accaduti attraverso il fact-checking, lo studio di carte, il vaglio di documenti, atti d’inchiesta. L’apporto dei giornalisti è così determinante. La responsabilità di raccontare il vero ormai non si esercita più solo verso chi legge un giornale ma anche verso chi guarda un film su Netflix.

Tre carezze per ogni insulto

Dopo poco più di un’ora di lezione del giornalista ascoltata nel massimo silenzio di 24 computer isolati, la voce di Saviano si mescola a quella degli allievi della scuola di giornalismo: è il momento delle domande. Sorride, ride e si gratta il capo Roberto nel sentirsi domandare del suo passato da giornalista debuttante, del suo presente fatto di sofferenza e distanza e delle sfide che lo aspettano nei prossimi mesi.

«Ho perso la crescita vera dai 26 anni in poi. Prima la mia condanna a morte dalle organizzazioni criminali e poi la sentenza di “è tutto fake” da una certa parte di pubblico. L’invidia è un problema sociale, che non permette di realizzarti: quando sei sotto una luce perenne non hai il diritto di sbagliare e tutto può essere usato contro di te», risponde a proposito degli anni della sua gioventù. Uno studente, campano di nascita, domanda se consiglierebbe a un aspirante giornalista della sua stessa terra di vivere il giornalismo così come l’ha vissuto lui. «Si può fare quello che ho fatto io, ma con più prudenza. Cosa che io non ho avuto. Non considerare la prudenza un atto codardo, ma un atto di coraggio al tuo futuro, che io mi sono giocato», dice con voce calma, scandendo bene ogni singola parola.

Serie tv, giornalismo di frontiera e molto altro: il seminario di Saviano
Roberto Saviano in wecall con i 24 praticanti della Scuola di Giornalismo della Luiss

E ancora con altre considerazioni di ogni tipo, dalla situazione attuale nei campi profughi in Grecia – «pagheremo un prezzo altissimo per ciò che sta accadendo e che i nostri giornalisti eroici non riescono a raccontare perché sottopagati» – agli effetti sociali di Gomorra e di altri suoi lavori che hanno fatto il giro del mondo: «Non diventi un camorrista perché guardi Gomorra e non diventi un trafficante perché guardi Narcos, così come non c’è stato un boom di vocazioni sacerdotali in seguito al successo di Don Matteo su Rai 1. Se una serie tv racconta i cartelli criminali questi ultimi si sentono rappresentati e inseguono quell’immaginario, ma esistevano già da prima delle serie televisive. Chi sceglie di unirsi alla criminalità lo fa a prescindere dalle serie tv».

Il tempo non basta e le domande si fanno sempre più incalzanti. Roberto non si lascia spaventare dalla velocità e dalla schiettezza di chi vuole imparare anche dalla vita più intima del giornalista e scrittore. Verso la conclusione una studentessa chiede come lui gestisca le emozioni più negative per lavorare. Saviano è sincero: «Si va incontro alla depressione, c’è voglia di vendetta, ma la mia assistente passa il tempo a non farmi rispondere a chi mi attacca. I giornalisti che mi hanno dossierato vogliono che io li quereli, per poter far rumore e far uscire dati veri ma manipolabili, come il mio vivere qui a New York. Se non rispondi la merda ti fa male ma non ti soffoca». Nel rispondere si ferma, sorride e ammette: «Non so gestire le emozioni perché sono consumato nel dolore. Jung insegna che per ogni esperienza negativa ce ne vogliono tre positive: anche io per ogni insulto poi ho bisogno di tre carezze».