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Esclusiva

Aprile 15 2023.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 16 2023
Quando la rinuncia a un figlio è un atto responsabile

Dopo Enea, un altro neonato viene lasciato in ospedale a Milano. Gli esperti commentano le vicende

Una madre che rinuncia al figlio, al momento della nascita, può definirsi responsabile? Se prestiamo attenzione a cosa è accaduto negli anni duemila, non possiamo che rispondere in maniera affermativa. Con il DPR 396/2000, la donna può scegliere di partorire in ospedale in anonimato (ndr). Questa è una possibilità per una madre che può vedersi costretta ad abbandonare il suo bambino. Marisa Malagoli Togliatti, neuropsichiatra e docente universitaria, torna su due casi: «Enea, il bambino lasciato alla Culla per la Vita della Clinica Mangiagalli e la neonata lasciata all’ospedale Buzzi di Milano pochi giorni dopo, indicano eventi che per la loro rarità hanno sollevato molte riflessioni e interrogativi. Credo che innanzitutto queste donne meritino il rispetto e l’affetto di tutti. Portare in grembo un bambino è un’esperienza coinvolgente che crea un legame profondo di cui le due mamme sono una testimonianza in quanto hanno tutelato il neonato, lasciandolo in un contesto protetto e sicuro. In entrambi i casi colpisce la consapevolezza del sacrificio della donna a favore del figlio, in quanto spera possa trovare una vita migliore e più adeguata con i genitori adottivi. Non sappiamo  le motivazioni che le hanno spinte a lasciare il neonato. Bisognerebbe chiedersi qual è il contesto di coppia nel quale è stato concepito il bambino o se il concepimento è frutto di violenza o se la donna ha subito maltrattamenti durante la gravidanza, ovvero se  ha avuto accanto a sè un partner  o è stata lasciata sola, se ha  potuto chiedere aiuto ad amici e parenti, se sapeva di potersi rivolgere ai servizi sociali o di poter partorire in ospedale chiedendo l’anonimato». 

La scelta diventa il risultato di un percorso, di una storia. Pertanto sembra escludersi che una disregolazione emotiva, un’incapacità di regolare le proprie emozioni, i propri comportamenti (ndr), abbia guidato la rinuncia delle madri. Si affianca il commento di Serena Borroni, associata di psicologia clinica alla facoltà di psicologia dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano. «Considerando i due episodi, non sembra che entrambe le madri abbiano agito impulsivamente. Con azioni che sembrano essere consapevoli e lucide, le madri hanno cercato di garantire un’adeguata protezione dei figli, percependo di non potere garantire le cure più adatte al proprio bambino. Questo è l’aspetto più doloroso delle due vicende che ci fa capire il peso di una decisione del genere, le ripercussioni emotive e psicologiche che queste donne hanno dovuto e dovranno affrontare».

Anche per Annalaura Nocentini, associata di psicologia dello sviluppo presso il dipartimento di scienze dell’educazione, lingue, interculture, letterature e psicologia dell’università degli studi di Firenze, «una decisione consapevole e volontaria ha guidato le azioni delle madri, una rinuncia orientata all’avvio del processo adottivo. Nel primo caso, il progetto della donna è chiaro perché, attraverso una lettera, sceglie anche di narrare quello che vorrebbe per il figlio. Nel secondo caso, c’è stata una espressa richiesta di aiuto al 118. Come ci insegna il Birthmothers, il fenomeno studiato nella letteratura americana, sono molte le determinanti che portano la madre a lasciare il proprio figlio, al momento della nascita. Spicca la condizione sociodemografica. Si distingue il desiderio di fare avere una vita migliore al bambino. Nella psicologia dello sviluppo, il rischio diventa una protezione per la traiettoria di vita del figlio e della madre».

Nelle parole di Nocentini, sembra intravedersi il richiamo alla sensitive responsiveness, la capacità dei genitori di rispondere in modo adeguato ai bisogni del bambino, influenzandolo positivamente (ndr).

Un aspetto che oggi sembra essere più presente, perché, come insiste Togliatti, «fino agli anni settanta le problematiche connesse ad una gravidanza indesiderata erano spesso drammatiche.  Molte donne, soprattutto minorenni, non avevano consapevolezza e conoscenza specifica della maternità, della riproduttività, della differenza tra sessualità e genitorialità. Quando ho cominciato ad interessarmi a questi temi, un caso che mi ha colpito è quello accaduto a Trapani. È il 2006 quando una ragazzina, disonorata che non poteva parlare della relazione a nessuno della famiglia, partorisce giovanissima. Una nascita in solitudine che esitò con un infanticidio. Era un percorso segnato da un contesto che la stigmatizzava come “disonorata” a partire dalla famiglia e dal contesto ambientale. Questo stigma sociale pericoloso ha spinto in passato a soluzioni da ripudiare, come l’abbandono dei bambini negli orfanotrofi. Dal 2000 non abbiamo più bambini abbandonati negli orfanotrofi, gli istituti per l’infanzia abbandonata sono stati chiusi a favore di comunità educative di tipo familiare che accolgono piccoli gruppi di bambini in attesa di adozione».

La neuropsichiatra conclude: «Oggi abbiamo una cultura diversa dell’infanzia e soprattutto i figli vengono concepiti all’interno di un progetto di genitorialità responsabile da parte della donna e dell’uomo, responsabilità che permette di tutelare la salute del bambino sia durante la gravidanza che alla nascita e negli anni successivi. La possibilità  di utilizzare varie forme di contraccezione ha fatto si che è diventato sempre più raro anche il ricorso all’interruzione della gravidanza. In caso di violenza le donne possono chiedere aiuto alle strutture che le assistono dal punto di vista psicosociale, medico e legale. Il senso di responsabilità genitoriale deve appartenere sia alla donna che all’uomo».

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