Esclusiva

Maggio 13 2023.
 
Ultimo aggiornamento: Maggio 17 2023
A 75 anni dalla nascita di Israele, «la società israeliana è più divisa che mai»

Il conflitto con la Palestina, i problemi interni e gli equilibri instabili nel Medio Oriente rendono l’anniversario dello Stato ebraico un’occasione per riflettere sulle sfide del passato e del futuro

«C’è una battuta sul Medio Oriente: le persone qui fanno la scelta giusta solo dopo aver provato tutte quelle sbagliate», racconta Meir Litvak, storico israeliano e professore del dipartimento di Storia del Medio Oriente all’Università di Tel Aviv. Sono passati 75 anni da quando lo Stato di Israele è stato fondato, ma il Paese affronta ancora oggi le conseguenze di tante scelte sbagliate, che ora lo pongono davanti «alla più grande crisi interna che abbia mai dovuto affrontare». Un popolo diviso, un’economia in discesa e una classe dirigente contestata, a cui si aggiungono il peso dell’irrisolta questione palestinese e il senso di incertezza dovuto ai nuovi rapporti di potere del mondo mediorientale.

La storia di Israele, però, è fatta anche di scelte giuste, prima fra tutte quella di dare a un popolo perseguitato per millenni la possibilità di autodeterminarsi. Il 29 novembre del 1947, con la risoluzione 181 dell’Onu, per la prima volta gli Ebrei vedono riconosciuto il loro diritto ad avere uno Stato. La Palestina viene divisa in due: una parte è consegnata alla popolazione arabo-palestinese già presente sul territorio, mentre l’altra è la Terra Promessa in cui il 14 maggio del 1948 nascerà lo Stato di Israele. «Dopo la fondazione, l’immigrazione ebraica è aumentata enormemente. Solo nel 1949, si è passati da 600.000 persone a più di 1 milione in meno di un anno. Non era mai successo prima nella storia», ricorda il professor Litvak.

Il conflitto israelo-palestinese

Mentre Israele annuncia la sua indipendenza, l’entusiasmo e la gioia che pervadono il popolo ebraico si mischiano al profondo risentimento della componente arabo-palestinese, che non accetta la divisione della Palestina. Il giorno dopo la fondazione di Israele, le truppe di alcuni Paesi arabi (Egitto, Giordania, Siria, Libano, Iraq) intervengono a sostegno dei palestinesi, dando vita a quella che viene ricordata come la prima guerra arabo-israeliana.

Da quel momento all’invasione del Libano del 1982, passando per la crisi di Suez del ’56, la guerra dei Sei Giorni del ’67 e quella dello Yom Kippur del ’73, fino alle Intifada degli anni Novanta e Duemila, la regione ha vissuto una spirale di violenza, attentati e rappresaglie mai terminata del tutto. Dopo il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza nel 2005, i continui scontri – l’ultimo proprio in questi giorni – hanno amplificato ancora di più le tensioni. «Gli Accordi di Oslo con l’OLP – l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – del 1993 sono tragicamente falliti. Per due motivi principali: gli estremisti radicali della parte palestinese, che ancora fanno campagna contro Israele, e gli estremisti ebrei, che hanno fatto del loro meglio per far fallire gli Accordi», spiega il professor Litvak.

«Purtroppo, è molto difficile raggiungere una soluzione seria a lungo termine per il problema di Gaza e della Cisgiordania (quelli che la diplomazia internazionale chiama i territori palestinesi occupati, ndr.).  L’attuale governo israeliano rifiuta la soluzione dei due Stati, così come molti palestinesi», continua Litvak. «La situazione attuale potrebbe portare o verso un unico Stato, a maggioranza e a dominazione araba, che sarebbe la fine di Israele così come lo conosciamo e, a mio avviso, un disastro. Oppure è possibile che ci sia un grande scontro in futuro, non so quando, alla fine del quale si spera che entrambe le parti capiscano che l’unica soluzione che hanno è quella dei due Stati. Sarebbe doloroso, ci sarebbe un’enorme opposizione da entrambe le parti, ma spero che alla fine la soluzione dei due Stati sia quella che prevarrà».

Israele e i nuovi rapporti di potere in Medio Oriente

Da qualche mese, nella regione mediorientale, a fronte di un isolamento sempre maggiore di Israele acquistano più centralità Stati come l’Arabia Saudita, l’Iran e la Siria, da poco riabilitata al tavolo dei Paesi arabi. «È chiaro che l’Iran è diventato molto più potente e che la riconciliazione saudita-iraniana sia un’ammissione di fallimento dei sauditi, che hanno fallito in ogni luogo in cui hanno cercato di fermare gli iraniani», spiega il professore. «È poi in corso un altro processo che coinvolge gli Stati Uniti, molto meno interessati al Medio Oriente rispetto a prima. I sauditi hanno capito che non possono contare sugli americani per la loro sicurezza, quindi hanno cercato di avvicinarsi ai cinesi, ma prima devono ottenere una riconciliazione anche con gli iraniani. Questo è un cambiamento strategico importante, che ha completamente distrutto la speranza o l’illusione degli israeliani di poter costituire una sorta di alleanza con i Paesi arabi contro l’Iran: non è quello che accadrà».

Da questa situazione di cambiamento e isolamento di Israele, Russia e Cina sono le potenze che più di tutte ottengono dei vantaggi. «Chi avrebbe mai immaginato quattro anni fa che la Russia avrebbe comprato armi dall’Iran?», chiede un sarcastico Litvak. «La Russia si è riposizionata perché è bloccata nella guerra in Ucraina, ma è anche una potenza in declino. La Cina, invece, è un attore importante. Per anni ha goduto della situazione in cui c’erano gli americani a mantenere la pace e si è limitata a definire accordi commerciali. Ora la grande domanda è se sarà disposta a fare sforzi non solo per comprare petrolio da tutti, ma anche per mantenere la stabilità nella regione. Non lo sappiamo, ma senza alcun dubbio la Cina è il principale beneficiario della situazione che si sta delineando in Medio Oriente».

Il ruolo di Netanyahu e la crisi interna a 75 anni dalla nascita di Israele

La sfida più grande di tutte per Israele arriva però dall’interno del Paese, dove da mesi centinaia di migliaia di cittadini protestano contro la riforma della giustizia e della Corte Suprema, annunciata e poi rimandata dal governo di Netanyahu. «Se la riforma legale riuscisse a passare – non credo succederà – renderebbe Israele un Paese totalmente non democratico, nel migliore dei casi qualcosa di simile all’Ungheria o alla Turchia», sostiene il professor Litvak. «Netanyahu ha promesso che la riforma non verrà attuata prima di raggiungere un ampio consenso. Quindi sembrerebbe che la riforma sia bloccata, ma non credo a una parola di quello che dice. Il suo governo sta conducendo una politica disastrosa».

Negli ultimi quattro mesi, la società israeliana ha rischiato di collassare e spezzarsi a metà tra chi sostiene la politica del governo e chi crede che la riforma della giustizia condanni il Paese a una catastrofe economica e democratica.  «Abbiamo avuto molte crisi in passato, abbiamo avuto molte divisioni politiche e sociali. Non credo, però, che ci sia stato qualcosa di così grave come quello che sta accadendo», conclude preoccupato il professor Litvak. «Non credo che la divisione nella società sia mai stata così profonda come oggi. Netanyahu è un leader molto divisivo, che vive di divisioni. Ci ha portato in una situazione molto grave a livello interno, economico e internazionale. Spero che riusciremo a superarla, non sarà facile, ma credo che l’attuale governo abbia peggiorato i problemi come mai prima d’ora».