Esclusiva

Maggio 17 2024.
 
Ultimo aggiornamento: Maggio 18 2024
Triste addio alla Terra Promessa

Una famiglia che sta pensando all’autoesilio contro la guerra e in opposizione al proprio governo. I nomi dei protagonisti sono di fantasia

Dvora e Natan sono moglie e marito e sono stanchi e tristi. «Vorrei solo stare a casa», dice lei. La loro casa, oggi, è in Israele, a Tel Aviv, ma hanno un progetto: lasciare il paese, insieme ai figli, e trasferirsi in Italia. Da qualche anno si sono convinti a fare il passaporto, ottenuto grazie all’origine italiana di lei.

La storia di come e perché le loro famiglie si sono spostate in Palestina è paradigmatica di cosa hanno significato, nella prima metà del Novecento, per gli ebrei di tutto il mondo, il sionismo e in generale l’Aliyah, l’immigrazione ebraica in Terra Santa. Una speranza, un sogno o una scelta obbligata.

La famiglia materna di Natan è di origine persiana. Partiti benestanti, durante il lungo e travagliato viaggio, in cui il suo bisnonno muore, vengono derubati e arrivano senza più niente. I suoi nonni paterni, invece, nascono in uno shtetl – termine yiddish per i villaggi a forte maggioranza ebraica – ultraortodosso sui Carpazi, nell’allora Impero austroungarico. «Erano un po’ i ribelli di questa comunità», dice, «per affrancarsi, mio nonno si è arruolato nell’esercito». Combatte la Prima Guerra Mondiale con la cavalleria, ma viene ferito gravemente. Quando, con la moglie, decidono di partire verso la Palestina, i rabbini della comunità non sono per niente contenti. Giudicano questa scelta un tradimento, un’offesa alla religione e pregano affinché la loro nave affondi. Il resto della famiglia, rimasto in Europa, muore nell’Olocausto. Così come i parenti dei nonni materni di Dvora. Medici pediatri di Berlino, vengono licenziati nel 1933, ma fuggono in tempo.

Da parte di padre, invece, è italiana. Suo nonno era ingegnere, ma anche uno scrittore ben inserito negli ambienti culturali romani. Inizialmente restio, dopo la promulgazione delle leggi razziali da parte del regime fascista nel 1938, viene convinto ad emigrare dal fratello, fervente sionista. Non riuscirà mai ad ambientarsi e, finita la guerra, tornerà spesso in Italia a trovare gli ultimi parenti rimasti. Anche sua moglie ha difficoltà nel sentirsi a casa nella Terra Promessa. Pittrice, non riuscirà mai ad abituarsi alla luce di Gerusalemme, finendo per posare i pennelli.

Lo spirito artistico, però, si tramanda alla nipote. «Con Natan ci siamo incontrati all’accademia d’arte», spiega Dvora, «abbiamo studiato insieme. Poi siamo rimasti a Gerusalemme qualche anno, lì è nata la nostra prima figlia». Più di trent’anni fa si spostano a Tel Aviv per lavoro e avvertono subito la netta differenza fra le due città: «Gerusalemme è bellissima, ma il sentimento religioso è estremo e ovunque. L’aria fresca di montagna è molto buona, ma quando ci siamo trasferiti abbiamo cominciato a respirare liberamente».

Triste addio alla Terra Promessa
Torre di Jaffa al tramonto

Ora, però, sentono che quella libertà sta venendo a mancare.  «Abbiamo sempre desiderato la pace e ci si siamo mobilitati per essa» dicono, «anche durante gli anni di servizio militare. All’epoca c’era la guerra in Libano». Era la prima, quella del 1982, con l’invasione dell’esercito israeliano nel sud del paese, dove erano rifugiati migliaia di militanti dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Negli anni i due hanno partecipato alle campagne nonviolente di raccolta delle olive in Cisgiordania, in cui volontari di tutto il mondo, scortano pacificamente i palestinesi, permettendogli di accedere ai propri ulivi nei territori occupati.

«Non siamo in nessun partito o organizzazione, ma è da quindici anni che scendiamo in piazza contro la direzione politica del governo», dice Dvora. «Prima era sporadico. A partire dalla riforma sulla giustizia, invece, lo si fa ogni sabato», continua, «sappiamo che il sabato c’è il corteo e poi si raggiunge il presidio dei parenti degli ostaggi».

L’attacco del 7 ottobre ha cambiato tutto nel Medio Oriente e ha influito anche sulla vita e sui progetti di Dvora e Natan. «Una coppia di nostri amici, sempre di origine italiana, voleva trasferirsi. Avevano già trovato una casa. Vivevano in un kibbutz nel sud, vicino alla frontiera con Gaza ed erano dei veri “combattenti di pace”», raccontano, «sono stati uccisi in quel giorno terribile». L’attacco sembra suscitare un orgoglio sopito: «Nei giorni successivi mi sono sentita molto legata a questa terra, non volevo più andare via» dice Dvora, «questa guerra, però, è così orribile e insopportabile. Penso che la cosa più logica ora sia crearsi un’alternativa fuori».

La ragione e la speranza si scontrano spesso nei momenti di crisi. «Il paese non è mai stato così tanto orientato dagli estremisti di destra», commenta Natan, «quando sembrava che ci potesse essere il risveglio di una forte opposizione, è scoppiata la guerra. Allora, la domanda principale è: ci sarà un cambiamento radicale oppure no? Se no, Israele diventerà un paese retrogrado, ultraortodosso, estremista e fascista, e gente come noi non potrà vivere qui».

«Il tema più importante per il futuro», prosegue, «deve essere quello di una soluzione politica per la Palestina. Affinché succeda questo, qui in Israele la sinistra deve lavorare con gli arabi e i loro partiti, diversamente da come ha fatto fino a oggi». C’è ancora rabbia per le elezioni del 2020, quando la coalizione di centro Blu e Bianco, guidata dal generale Binyamin Gantz, arriva seconda di poco dietro il Likud di Benjamin Netanyahu. Piuttosto che formare un governo con la lista che riuniva i partiti degli arabi-israeliani, terza forza, si allea proprio con l’attuale primo ministro. «Gantz non mi piace, però c’era un’opportunità per liberarci di Bibi», dice Natan, «voterò la sinistra solo se si alleerà con i partiti arabi. È l’unica possibilità per un Israele diverso». «Se cambierà saremo felici di finire qui la nostra vita», commenta invece la moglie, «la statistica, però, è contro di noi».

Ecco che ritorna forte l’idea di andarsene, di farlo per loro stessi e per i loro figli. «Tutto sommato penso che l’Europa sia ancora la forza più responsabile e in cui ritrovo i miei valori», pensa Natan. Dove andare però? «Su questo litighiamo molto. Lui cerca l’acqua, per fare kayak come qui al mare», dice Dvora, «io voglio una città con tanta arte». Basta questo a immaginare un futuro migliore altrove, lontano da quella terra che per i loro antenati fu speranza, sogno o scelta obbligata.