Esclusiva

Gennaio 14 2025
«Il suicidio di Israele», una voce critica sul Paese di Netanyahu

Nel suo libro Anna Foa riflette sul futuro di Israele ripercorrendone il passato travagliato e i suoi rapporti con gli ebrei della diaspora e con il popolo palestinese

È breve e va dritto al punto l’ultimo libro di Anna Foa, storica dell’ebraismo con un passato da docente universitaria presso La Sapienza di Roma. La guerra scatenata dal governo Netanyahu contro Hamas, responsabile dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023, si sta trasformando in un boomerang che potrebbe mettere in pericolo il futuro di Israele. 

Rispondere alla violenza dei terroristi, che quel giorno uccisero 1145 persone inermi e ne presero altre 251 come ostaggi, con una vendetta spietata che ha raso al suolo intere città e provocato più di 40.000 morti nella Striscia di Gaza, ha reso lo Stato ebraico sempre più isolato. Negli ultimi mesi, nemici storici come l’Iran lo hanno colpito su più fronti, le opinioni pubbliche occidentali sono scese in piazza gridando “Palestina libera” e la comunità internazionale ha più volte parlato di genocidio e crimini contro l’umanità commessi contro la popolazione di Gaza.    

Mentre l’antisemitismo rialza la testa in un’Europa sempre più polarizzata e intollerante, Anna Foa, ebrea della diaspora, scrive Il suicidio di Israele (Laterza, 2024), un’opera dal titolo provocatorio con cui guarda al passato per capire il presente, rimette insieme i pezzi, riflette su cause e conseguenze, e prova così a immaginare un futuro diverso. Ripercorrendo la storia dello stato d’Israele dalla nascita fino ai nostri giorni, si sofferma soprattutto sugli errori commessi da entrambe le parti, sulle occasioni mancate, senza dimenticare i fatti più cruenti e sanguinosi. 

Un esercizio necessario nato dalla convinzione che, nonostante il dolore e l’odio generato da decenni di guerra, «si possa ancora spiegare, parlare, distruggere con le idee miti e generalizzazioni, complicare le banalizzazioni, per rendere semplici e comprensibili i fatti e il pensiero, per aiutare a capire. Capire non basta, certo, ma senza comprensione non esistono possibilità».

Come a rispondere a una delle accuse che in questi mesi si è levata dalle piazze europee e americane contro Israele, Foa inizia il proprio discorso affrontando un tema scomodo, il legame tra sionismo e colonialismo. Secondo la studiosa, i due fenomeni tendono a convergere dopo il 1948, l’anno in cui la nascita dello Stato ebraico da un lato e la Nakba dall’altro fanno naufragare l’idea, cara ad alcune correnti sioniste, di una convivenza tra ebrei e palestinesi in uno stesso stato. 

Ma è dal 1967, con la vittoria schiacciante ottenuta durante la Guerra dei sei giorni, che il sionismo cambia pelle. Da movimento di rinascita nazionale di stampo ottocentesco si trasforma in un movimento messianico, i cui affiliati si sentono investiti da Dio del compito di ricostituire l’antica terra d’Israele, così com’era prima della diaspora del 70 d.C.

Iniziano così a comparire i primi insediamenti nei territori assegnati ai palestinesi, che nel corso dei decenni si moltiplicano fino ad arrivare oggi a più di 250. Un numero molto alto dovuto sia all’aumentare nel Paese dei gruppi religiosi e ultraortodossi, sia alla politica seguita dal leader del partito del Likud Benjamin Netanyahu, al potere da più di un decennio. 

Durante i suoi governi, l’obiettivo di creare due Stati che convivano pacificamente, è stato sostituito dal progetto messianico di una grande Israele, a cui si sono accompagnati provvedimenti politici sempre più reazionari e illiberali, appoggiati dai partiti dell’estrema destra razzista e sovranista.

Per Foa un Paese schiacciato tra fanatismo religioso, una guerra su più fronti e l’isolamento dall’opinione pubblica internazionale, è destinato a un suicidio politico, territoriale e morale. Per evitare questa catastrofe, gli ebrei della diaspora, soprattutto gli europei, dovrebbero alzare la voce, criticare con maggior fermezza l’operato del governo Netanyahu e recuperare una propria autonomia culturale e politica. Un modo questo, per frenare in Occidente l’identificazione sempre più frequente tra antisionismo e antisemitismo, talvolta strumentalizzata dallo stesso governo israeliano per tacitare il dissenso, e l’assimilazione tra ebrei e israeliani.

Un passo ulteriore sarebbe quello di abbandonare il sionismo nazionalista, responsabile delle sofferenze e delle discriminazioni subite finora dal popolo palestinese, per trasformare Israele in «uno stato democratico per tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, nazionale e religiosa».  

Un orizzonte ancora molto lontano secondo la professoressa. Per rimarginare le ferite provocate dall’incredibile esplosione di violenza che ha insanguinato il Medioriente nell’ultimo anno e mezzo ci vorrà un cessate il fuoco, un processo che accerti le responsabilità della classe politica, molti compromessi e tempo. Tempo per rielaborare i traumi, per ricostruire. Con la speranza che un giorno l’odio cesserà e palestinesi e israeliani riusciranno a vivere pacificamente nella stessa terra.

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