Un’ora e trenta di strada, per mezz’ora di allenamento. Quando il coach Massimo Antonelli parla di Tam Tam Basketball, a colpire è la sua ammirazione nei confronti dei ragazzi. «Nessuno di loro mi chiede mai quando finisce la lezione, sanno cosa vuol dire il sacrificio» racconta. L’associazione nata nel 2016 come sportiva dilettantistica è diventata anche sociale. La squadra è formata da giovani nati in Italia da genitori per lo più africani. «Sono un popolo sempre in festa. Durante le loro messe cantano, mangiano, ballano con i loro vestiti colorati», racconta Massimo, ex cestista della Virtus Bologna. La scelta del luogo dove far partire questa “missione”, come la definisce lui, non è casuale. Castel Volturno, località del litorale campano, è tra le città con la più alta incidenza di extracomunitari in Italia. Povertà e problemi di inserimento sociale portano spesso i giovani su strade sbagliate. «Vedendo la situazione ho sentito il bisogno di intervenire – racconta Massimo – In America la chiamano “Giving Back Philosophy”, il desiderio dei giocatori che hanno avuto successo di restituire qualcosa al mondo che li ha formati». Così l’àncora di salvezza prende la forma di un pallone arancione a righe nere.
A sostenerlo nel progetto, gratuito per tutti i ragazzi, trova la complicità del fratello Prospero, anche lui con un passato da giocatore, e di Antonella Cecatto, Pietro D’Orazio e Guglielmo Ucciero. Gli stessi con cui è partita un’amichevole per scegliere il nome del team: «Una mattina mi sveglio e non so come penso a Tam Tam – racconta l’allenatore – L’ho associato in primis al tamburo, usato un tempo in Africa per comunicare da un villaggio all’altro. Poi ho pensato al suono del pallone che sbatte per terra e al battito del cuore».

In mezzo ai ricordi di Massimo ci sono anche i momenti più difficili. «All’inizio è stata dura, sapevo di una realtà complicata, ma non pensavo così tanto. Nessuno aveva fatto sport prima, non potevano permetterselo – prosegue – Immaginate bambini di dodici anni che, per arrivare al palazzetto, fanno chilometri a piedi perché i genitori non hanno la macchina né i soldi per un biglietto dell’autobus. Sono storie disumane». Il basket arriva come l’occasione per cambiare rotta, almeno fino al 2017, quando a interrompere desideri e speranze dei ragazzi fa capolino la burocrazia. «Avevo iscritto le squadre alla Federazione Italiana Pallacanestro per fare i campionati regionali – spiega il coach – In quel momento vengo a sapere che per il regolamento federale ogni squadra non può avere più due giocatori stranieri. Una tragedia per noi». In Italia, infatti, la legge riconosce il diritto a chi nasce sul territorio da genitori stranieri di diventare cittadini al compimento dei 18 anni. La notizia è «uno schiaffo in faccia», come dice King, oggi ventiduenne col sogno di un futuro nell’NBA: «Il basket era tutto per noi, ogni momento era buono per allenarci. Mentre sei sul campo ci credi, pensi che puoi diventare un Michael Jordan, che puoi volare. Appena il coach ci ha detto che non potevamo partecipare a causa della cittadinanza non ci sembrava vero».
Tra i valori che tutti gli sport insegnano c’è la resistenza e Tam Tam lo incarna perfettamente. Grazie alla loro battaglia la storia attira l’attenzione dei media e diventa la voce di un milione di minori che vivono la stessa esclusione. «Abbiamo sentito la vicinanza delle persone comuni – spiega Antonelli – È anche merito del loro sostegno se siamo arrivati ad ottenere dal Parlamento una legge al riguardo». Quella norma, denominata “Salva Tam Tam”, Massimo se la ricorda a memoria: “Al fine di consentire il diritto alla pratica sportiva, i minori cittadini di Paesi terzi, anche non in regola con le disposizioni relative all’ingresso […] possono essere tesserati senza alcun aggravio rispetto ai cittadini italiani”.

Dalla storia di Tam Tam sono nati un documentario girato dall’emittente del Qatar “Al Jazeera” e un libro, “Black Basket Castel Volturno”, scritto dal fotografo e giornalista RAI Simone Carolei. «Chi parla di noi racconta la nostra rivendicazione per i diritti dei ragazzi, ma la cosa bella è che non c’è pena nelle loro parole ma dignità, bisogni e di desideri», conclude l’allenatore.
In nove anni l’associazione ha creato quattro squadre e visto passare tanti ragazzi e ragazze. Alcuni hanno scelto di seguire percorsi diversi, altri come King sono rimasti fedeli a palla e canestro: «Voglio diventare un grande atleta, ho già concluso il percorso per diventare allenatore e vorrei fare qualcosa anche in ambito comunicativo – dice determinato – Si lo so, sono tante cose, ma il basket mi ha insegnato che basta crederci. Tutti possiamo farcela».